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PRIMO PIANO. COP24: i tempi lunghi della politica

PRIMO PIANO. COP24: i tempi lunghi della politica

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 45 del 29/12/2018

I leader mondiali erano arrivati ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite a Katowice con l'incarico di sostenere l'accordo di Parigi e rispondere all'emergenza climatica. Ci sono volute due settimane, un paio di notti in bianco e un tempo supplementare di 24 ore per trovare un compromesso fra le 198 nazioni riunite in Polonia per la 24esima Conferenza dell’Onu sul clima. La COP24 non è dunque fallita, perché il documento finale di Katowice, benché generico, consente al processo avviato con l’Accordo di Parigi nel 2015 di andare avanti e diventare esecutivo fra due anni. Questo era l’obiettivo dichiarato di questa Conferenza, stabilito nel 2015 a Parigi: definire un insieme di linee guida (il “rulebook”), per permettere di rendere pienamente operativo l’Accordo e valutare i progressi svolti in questa direzione dai diversi Paesi. Le premesse quindi erano per una COP tecnica, senza capi di Stato a fare roboanti annunci.

Un risultato quindi soddisfacente? Mah! Commentando il risultato del Vertice di Parigi del 2015, il noto giornalista del Guardian, George Monbiot, scrisse che «rispetto a quello che avrebbe potuto essere, è un miracolo. Rispetto a quello che avrebbe dovuto essere, è un disastro». E come giudizio potrebbe valere anche per Katowice, perché guardando a come le negoziazioni si sono svolte nelle ultime due settimane, allo stallo politico e tecnico che si è presentato su varie tematiche, in certi momenti pareva impossibile raggiungere un accordo. Invece alla fine questo Rulebook, il set di norme tecniche per misurare le emissioni di gas serra di ciascun Paese e per monitorare e comunicare le riduzioni, è stato approvato; un set che varrà indistintamente per tutti, ricchi e poveri, ma con una certa flessibilità: se un Paese in via di sviluppo non pensa di riuscire a raggiungere gli standard richiesti lo potrà dichiarare e chiedere un sostegno per aumentare le sue capacità tecniche in quella direzione.

Per quanto concerne la dibattuta inclusione del Rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) sulle conseguenze di un innalzamento della temperatura sopra l’1.5°C, è stato raggiunto un compromesso: se durante i lavori dell’Organo Sussisidiario di Consulenza Scientifica e Tecnologica (SBSTA) i negoziatori avevano incluso un semplice richiamo a considerare i risultati del rapporto, ora il testo del Rulebook richiede agli specialisti del SBSTA di riconsiderare il rapporto durante la loro prossima sessione negoziale prevista per giugno 2019.

Ma le note positive si chiudono qui e proprio di fronte al monito posto dal Rapporto IPPC è impossibile non scrivere che Katowice è stato un fallimento poiché non si è concordato di apportare alcun miglioramento agli impegni sinora presi da ciascun Paese, i Contributi Nazionali Volontari (NDCs). Quelli finora presentati non riusciranno a soddisfare l’obiettivo dell’Accordo di Parigi e, anche se raggiunti (cosa per nulla scontata), porteranno ad un aumento del riscaldamento al di sopra dei 3° C.

Insomma questa COP è stata un test sul multilateralismo climatico, che i Paesi hanno superato per il rotto della cuffia: non sono stati bocciati ma più che una promozione è un rinvio a settembre. E questo è un elemento costante di tutte le COP che con enorme fatica ogni anno fanno passi in avanti sì, ma a una velocità inadeguata alle necessità di un clima che cambia senza aspettare i tempi della politica.

Analizzando le posizioni dei Paesi presenti va notato che una quarantina di Paesi avevano puntato ad un risultato più ambizioso: l’Unione Europea con Canada e molti Paesi in via di sviluppo hanno sostenuto i risultati dell’ultimo rapporto dell’IPCC. Sul fronte opposto i cosiddetti “fossili”, una coalizione formata da Usa, Arabia Saudita, Russia e Kuwait. Maglia nera al Brasile, che ha rinunciato ad ospitare la prossima COP25 – che si farà in Cile – e ha bloccato la chiusura dei negoziati all’ultimo minuto rivendicando i vecchi (e poco trasparenti) «crediti in CO2» ereditati dal precedente protocollo di Kyoto per la presenza della foresta amazzonica sul suo territorio.

E il nostro Paese come si è comportato? L’Italia si è schierata con l’UE nel gruppo dei Paesi ambiziosi e il ministro dell’ambiente Sergio Costa ha annunciato l’impegno italiano di chiudere tutte le centrali elettriche a carbone entro sette anni. Ma occorrerà passare dalle parole ai fatti perché nei primi nove mesi di attività il nuovo governo non ha attuato alcuna riforma per decarbonizzare il sistema energetico. L’attuale strategia energetica nazionale (Sen) pone come obiettivo di lungo periodo una riduzione solo del 63% delle emissioni entro il 2050, a fronte dell’impegno del ministro Costa di arrivare a zero emissioni nette entro quella data. La Sen continua a far affidamento su utilizzo e espansione delle infrastrutture a gas per raggiungere tale obiettivo, mentre la generazione da carbone può essere sostituita interamente da rinnovabili e da un ruolo maggiore delle interconnessioni elettriche che, insieme alle risorse di flessibilità, garantirebbero la stessa sicurezza a costi inferiori del gas.

In sintesi, di fronte al risultato della COP24 non si può che prendere atto per l’ennesima volta che i ritmi del multilateralismo sono totalmente inadeguati all’emergenza climatica. E non potrebbe essere diversamente perché il vero problema è che a livello sociale manca un vero supporto ad attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Purtroppo, e lo dimostra anche il recente dibattito italiano sulla possibile tassazione delle auto inquinanti per sostenere incentivi per auto a basse emissioni, le misure ambientali sono considerate penalizzanti per l’economia e per le fasce meno abbienti. Manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella Laudato si’ che «un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale». La sfida per la sopravvivenza umana su questo pianeta passa per un’equazione che tenga insieme ambiente, diseguaglianze ed economia, comprendendo che il problema è unico e comprende anche quello dell’emigrazione. Per questo il vero testo faro per disegnare il nostro futuro non è l’Accordo di Parigi ma l’enciclica di papa Francesco. 

Roberto Meregalli è membro dell’Associazione Nazionale "Beati i costruttori di Pace" / "Energia Felice". 

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