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Liberté, egalité, fraternité: identikit del laico

Liberté, egalité, fraternité: identikit del laico

Tratto da: Adista Documenti n° 12 del 30/03/2019

Il laico, nella Chiesa, è il non-presbitero; nella società, il non-cattolico; al Consiglio superiore della Magistratura il non-togato… Ma questa identificazione in negativo non è fortemente riduttiva? La condizione di laico è essenzialmente determinata da un’opposizione, da una distanza, da un rifiuto? Una bellissima figura di laico del Novecento, Norberto Bobbio, non era per nulla d’accordo. La laicità è un grappolo di qualità, di atteggiamenti, di virtù interamente declinati al positivo: senso critico, capacità di ascolto, curiosità per il diverso, memoria storica, apertura al nuovo, gusto del bello, rispetto per l’avversario, gentilezza nei modi… È in questo solco che ho inteso dare un contributo enucleando, in La filosofia come terapia dell’anima, alcuni tratti essenziali di una “spiritualità laica”.

Invertendo le tendenze linguistiche oggi dominanti dovremmo imparare a riconoscere nella laicità la dimensione fondante, costitutiva, rispetto alla quale ogni altra determinazione o è una (legittima perché arricchente) esplicitazione/specificazione o è una (illegittima perché impoverente) sottrazione/menomazione: un magistrato ligio alle leggi è un laico che esercita la funzione giurisdizionale e un predicatore esaltato o un tifoso sfegatato sono dei non-laici ubriacati di fanatismo.

Già questo è vero nell’ambito ecclesiale. Secondo la teologia cattolica, se il battesimo non ti rende laico – membro del laos del popolo (di Dio) – non puoi accedere a nessun altro sacramento. Mi pare fosse il padre domenicano Congar a proporre di eliminare tutti i titoli onorifici affastellatisi lungo venti secoli di storia e di lasciarne uno solo: “Eminentissimo laico”. Su questa scia, proprio in queste settimane, un presbitero – invitato a presentarsi via internet a un gruppo di amici – esordiva spiritosamente scrivendo: «Nato nel 1963, laico ridotto allo stato pretale dal 1988…».

Così dovrebbe andare anche nella pratica e, conseguentemente, nella convenzione linguistica della società in senso più ampio. Oggi si dice di Tizio che è credente, però laicamente, o di Caio che dirige un partito, però laicamente: domani si dovrebbe poter dire è credente/ agnostico/ateo autenticamente perché è laico; è dirigente/ militante/simpatizzante di un partito in maniera civile perché è laico. La laicità, insomma, come connotazione ovvia, scontata, universalmente presupposta.

Se così fosse – e così dovrebbe essere – la laicità, più che una caratteristica differenziante, tendenzialmente minoritaria se non addirittura ereticale, dovrebbe essere interpretata come il modello ordinario di riferimento: il fertile humus nel quale affondare, eventualmente, le radici delle proprie specifiche scelte confessionali, professionali, politiche o d’altro genere.

Se lo straordinario si registra nelle ricorrenze eccezionali, l’ordinario si registra nel quotidiano: dunque, il laico si riconosce prima di tutto nella quotidianità. Se egli non rivela le sue qualità nello stile abituale, nella monotonia dei giorni feriali, molto probabilmente è uno che indossa la maschera della laicità solo per risultare “politicamente corretto” nelle occasioni in cui i riflettori  sono puntati su di lui.

Solo a titolo esemplificativo, evoco rapidamente tre o quattro situazioni in cui l’autenticità del nostro essere laici viene messa alla prova.

Un contesto davvero quotidiano è la tavola. Feuerbach esagerava nell’affermare che l’uomo è ciò che mangia; ma non c’è dubbio che ciò che mangia rivela molto del tipo di uomo che è. Dalla scelta dei propri cibi, e soprattutto dal giudizio sulle scelte altrui, si nota la differenza fra l’approccio laico e l’approccio bigotto, fondamentalista. Il laico non è, in quanto tale, un relativista né tanto meno un qualunquista: ha maturato dei propri criteri su ciò che mangia e su ciò che beve. Ma proprio la fatica con cui ha maturato le sue opinioni gli ha insegnato che siamo in un campo estremamente complesso, dove s’incrociano e si scontrano considerazioni ragionevoli di segno assai diverso. Dunque, se è vegano, non deride i vegetariani; se è vegetariano, non deride gli onnivori; se è onnivoro, non deride né i vegetariani né i vegani, appellandosi ad argomenti tradizionalistici (“Si è sempre fatto così”) o conformistici (“In tutto il mondo si fa così”) e rivelando solo ignoranza storica e provincialismo miope. Non si tratta (solo) di buona educazione borghese; “tollero” (che brutto verbo!) opzioni alimentari diverse dalla mia perché ho capito che dietro ogni piatto c’è una storia laboriosa di credenze religiose, di discernimenti filosofici, di condizionamenti politici. Un esempio di saggia laicità è, a questo proposito, Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? di Jonathan Safran Foer.

Un altro significativo test al quale viene sottoposta la nostra – presunta o reale – laicità è costituito dalle relazioni di genere. Il laico è maschio, ma non maschilista; è femmina, ma non permanentemente in polemica con ogni traccia di maschile che incrocia nella vita; è eterosessuale, ma non omofobo; è omosessuale, senza nasconderlo ma senza farne una bandiera esibita per provocazione contro la normalità piccolo- borghese… Anche qui: non si tratta di perbenismo. Si tratta di aver capito che, per natura e per cultura, non esistono né due né tre né cinque generi sessuali: ognuno nasce, e cresce, dentro una gamma molto vasta – già dal punto di vista biologico, ancor più dal punto di vista psicosociologico – di identità sessuali. I dogmatici sono sempre arci-sicuri di essere al posto giusto in questa gamma di possibilità e, soprattutto, sono arci-sicuri che gli altri, se occupano un posto diverso rispetto alle categorie socialmente canoniche, sono nell’errore. Al contrario i laici trasformano volentieri le proprie tesi in ipotesi e si lasciano sorprendere dalle molte cose in cielo e in terra che non sono contenute nella loro visione del mondo. In questo campo, sanno che ci sono molti modi di essere maschio, di essere femmina, di essere gay, di essere lesbica… L’agile volumetto di Selene Zorzi, Il genere di Dio. La Chiesa e la teologia alla prova del Gender, può costituire un valido strumento di chiarificazione in merito.

Le vicende politiche italiane di questi mesi evidenziano un aspetto della laicità nel quotidiano che ha acquistato, se non erro, particolare rilevanza. Mi riferisco alle scelte elettorali. Chi supera la tentazione (solo raramente dettata da nobili motivazioni) all’astensionismo, vota un partito quasi sempre con il criterio del “meno peggio”. La libertà del laico comporta la libertà, davanti a sé stessi e agli altri, di valutare con la massima oggettività possibile le politiche effettivamente praticate dal partito per cui si è votato e, dunque, di approvarne alcune e di contestarne altre. Questa distanza critica è incomprensibile per le mentalità non-laiche che seguono le cronache con lo stesso distacco emotivo con cui seguirebbero una corsa di cavalli dopo aver puntato su uno di essi l’intero patrimonio familiare. Ai suoi occhi, il laico che riconosce errori della sua parte politica è un incoerente; se riconosce mosse opportune degli avversari, è un traditore; se non difende con argomenti anche capziosi i propri parlamentari, è un vigliacco. Insomma, al cospetto del manicheismo non-laicale si squadernano solo due vie: o l’ignavia di chi rinunzia al diritto/dovere di votare o l’appartenenza cieca ad un simbolo elettorale, senza “se” e senza “ma”.

Va ricordato almeno un quarto contesto in cui viene verificata (o falsificata) l’autenticità della nostra laicità: l’ambito lavorativo. «Da qualche tempo – scriveva già a metà del XX secolo Romano Guardini nel secondo tomo del suo Ansia per l’uomo – si vede che i compiti scientifici, tecnici, sociali, e molti altri, diventano così grandi che uno da solo non è più in grado di dominarli. Così, al posto della personalità dominatrice, succede il team, o gruppo di lavoro. Nel gruppo nessuno si distingue; ma ognuno è importante. Ciascuno lavora al suo posto; ma con responsabilità per la causa comune. Ciascuno sa che per lo scopo comune può fare assegnamento sugli altri: così, con tutta naturalezza, egli si coordina con gli altri». La mentalità laica riconosce come congeniale questa logica comunitaria, orizzontale, cooperativistica. Non si tratta di misconoscere le leadership carismatiche, le eccellenze di meriti, quando effettivamente esse si danno: si tratta di non cristallizzare gerarchie stabili, di non sclerotizzare rendite di posizione e, soprattutto, di fare in modo che i talenti di ciascuno rifluiscano nel bene comune. Laicità è anche rifiuto dell’idolatria, del divismo, della piaggeria e dell’adulazione.

In sintesi: se dovessi condensare in una formula l’identikit del laico coerente anche nella quotidianità, lo definirei un figlio integrale dei sacri princìpi della Rivoluzione Francese del 1789. Uno che esalta la libertà, senza dimenticare l’uguaglianza dei diritti né la fraternità: infatti, anche quando occupa posizioni sociali privilegiate, approfitta di tutte le occasioni e di tutti gli strumenti a sua disposizione affinché i diritti civili e sociali, di cui è geloso, siano effettivamente assicurati a tutte le persone. Anzi, sia pur analogamente, a tutti i viventi: lasciatosi alle spalle la barbarie del razzismo, prova a liberarsi gradualmente anche dalla cecità dello specismo. 

Autore di numerosi saggi, Augusto Cavadi ha insegnato filosofia a Palermo. Attualmente è direttore della “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo e consulente filosofico (www.augustocavadi.com).

*  Eugène Delacroix, La Libertà che guida il popolo (olio su tela, 1830); fonte: museo del Louvre, Parigi; foto tratta da wikimedia commons, immagine originale e licenza

 

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