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Mons. Lorefice: «Salvare i corpi, ricostruire la politica, per edificare la civiltà»

Mons. Lorefice: «Salvare i corpi, ricostruire la politica, per edificare la civiltà»

PALERMO-ADISTA. I «corpi», le «case» e la «politica». Sono le tre «arche» da costruire «per custodire la casa comune, il creato, e per porre i presupposti dell’arcobaleno, della nostra rinascita». Lo ha detto mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, durante il discorso alla città, al termine dei festeggiamenti per il tradizionale Festino di Santa Rosalia, nella serata dello scorso 15 luglio.

«La prima arca da costruire, la prima realtà del creato da proteggere sono i corpi, i corpi concreti, i corpi di carne. Le persone», ha detto l’arcivescovo di Palermo. «La nostra arca deve innalzarsi per custodirli. Penso ai corpi eliminati da mani violente, ai corpi stuprati, ai corpi dei bambini violati o investiti sulle nostre strade, ai corpi travolti dalle alluvioni, a tutti i corpi affondati, ai corpi scomparsi, ai corpi degli anziani, dei disabili abbandonati, ai corpi feriti; i corpi dei poveri della nostra città, degli oppressi e dei vinti della terra; come dire, penso alla faccia del mondo sottratta alla nostra vista. Un esercito di corpi tanto reali quanto invisibili, che si annidano nelle macerie della storia, distrutti da una corrente gelida di annientamento e di indifferenza. Un pensatore ebraico, morto suicida per sfuggire all’arresto da parte dei nazisti – si chiamava Walter Benjamin –, immaginò in un suo testo che queste macerie della storia umana fossero fissate con occhi sbarrati da un Angelo, trasportato via di spalle dal vento del progresso, con le ali impigliate e lo sguardo attonito. Quell’Angelo, rappresentato nel quadro di un grande pittore svizzero-tedesco, Paul Klee, a cui Benjamin si era ispirato, mi pare l’immagine appropriata del nostro sgomento, del dolore messianico. È lo sgomento che ci afferra al cospetto dei barconi affondati, dei campi di concentramento libici (che continuano la loro sistematica distruzione nazista dell’umano con la nostra colpevole complicità), dei popoli dell’Africa e del Sud del pianeta martoriati dallo sfruttamento dell’Occidente, ridotti allo stremo e alla morte, lo sgomento davanti a tutti i corpi viventi che finiscono la loro avventura nel non senso, nell’abisso del nulla».

Dopo i corpi, le case e le famiglie, la seconda arca. «Custodiamo cioè la fatica e la bellezza del vivere assieme di ogni coppia, la dignità mai giudicabile di ogni amore, di ogni slancio appassionato verso l’altro in cerca di felicità», ha detto Lorefice. «Le case, ordinate o scombinate, equilibrate o disastrate, regolari o irregolari, hanno tutte diritto alla carezza consolante del Vangelo sotto l’infuriare del diluvio dell’analfabetismo affettivo, dello sfruttamento dei corpi, della mancanza di comunicazione, della tensione frustrata al dialogo e all’incontro».

Infine l’arca della politica, da costruire «in fretta, per far fronte al diluvio». Si tratta, ha spiegato l’arcivescovo di Palermo, «di dar vita a una civiltà diversa, di essere nell’arca la culla di una politica rinnovata, che pensa la città e la crea secondo la chiamata del tempo, all’altezza dei “segni dei tempi”, eredità imperitura di Giovanni XXIII. Nella città che vogliamo custodire nella nostra arca al posto dei muri ci sono le mani, strette le une alle altre, senza distinzioni di culture, di religioni, di colori. Perché la politica che ascolta i corpi considera l’umano come il fondamento del suo essere. E dunque non ha bisogno di barriere protettive, ma si protegge con il cerchio descritto dalle mani di tutti. Un cerchio che non esclude ma è per sua natura permeabile e inclusivo. Queste città custodite nella nostra arca sono allora “patrie non patrie”, patrie delle donne e degli uomini di ogni patria; città in cui tutti siamo di casa e tutti ne siamo fuori; tutti padroni e tutti ospiti; tutti a nostro agio e tutti stranieri e pellegrini, come ci ricorda meravigliosamente l’A Diogneto: “Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera” (V, 4-5)».

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