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Draghi, Renzi e la dittatura del mercato

Draghi, Renzi e la dittatura del mercato

Tratto da: Adista Documenti n° 8 del 27/02/2021

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La sensazione è quella di scivolare su un piano inclinato: dal male (un male senza alternative migliori) del governo Conte al peggio del possibile governo Draghi, al pessimo di un governo Salvini-Meloni, che sembra ora ancor più inevitabile.

Matteo Renzi c’è riuscito di nuovo. Prima con Letta, adesso con Conte: attraverso crisi extraparlamentari strozzatesi nelle ovattate stanze del Quirinale, ha ucciso due governi che avrebbe dovuto lealmente sostenere. Nel primo caso per fatto personale (l’ascesa alla presidenza del Consiglio), in questo anche (per riacquistare un qualche credito agli occhi dell’establishment internazionale). E in entrambi con la stessa disinteressata dedizione agli interessi del Paese che è apparsa nel mostruoso episodio saudita (https://volerelaluna.it/rimbalzi/2021/02/01/-matteo-renzi-e-il-rinascimento-saudita/): che da solo sarebbe bastato a porre fine a qualunque carriera politica, in un Paese civile.

Renzi, dunque, trionfa: umiliando tutti (a partire dal Parlamento) e presentandosi a fianco di Mattarella come il salvatore della patria. Un gioco di sponda che, spiace dirlo, ingenera qualche dubbio anche sul ruolo del presidente della Repubblica: specie per il singolare discorso con cui questi ha escluso tassativamente la possibilità di andare ora ad elezioni. Un orientamento che Renzi forse non ignorava, come invece, evidentemente, lo ignoravano i vertici del Pd: i quali, inducendo Conte a dimettersi laddove non era affatto necessario, ne hanno servito a Renzi la testa su un piatto d’argento.

Se Renzi è il grande elettore di Draghi, cosa faranno gli altri? La Lega ha un duplice interesse a permettere che questo governo nasca: prima astenendosi (e così rivelandosi determinante, e apparendo affidabile a mercati e poteri internazionali – «Salvini ha una grande opportunità – ha subito twittato il direttore di Repubblica Maurizio Molinari – il sostegno a Draghi gli consentirebbe di avere la legittimità europea che gli manca»), e poi intercettando la protesta sociale che l’azione di Draghi provocherà. Il Pd è nella situazione peggiore: il suo profilo moderato e “responsabile” gli rende difficile sfilarsi, ma il rischio che Renzi se lo riprenda, svegliando le quinte colonne dormienti, è ora concretissimo. Il Movimento 5 Stelle ha invece la sua grande occasione per tornare a un ruolo antisistema, recuperando un po’ di quella presa che sembrava ormai irrimediabilmente perduta: se dice di no a Draghi, potrebbe essere l’unica opposizione – insieme, forse, alla falange della Meloni, frenata però dalla linea morbida di Forza Italia e Lega, e comunque tentata dall’astensione. Se invece dovesse prevalere la sindrome di Stoccolma, e i Cinque Stelle votassero per Draghi, il Movimento sarebbe davvero finito: e anche questo colpisce nella scelta di Mattarella, avvenuta senza consultazioni sul nuovo nome. Perché imporre al Movimento non una Cartabia o una Lamorgese, ma il grande custode del sistema bancario internazionale, quasi pretendendo la definitiva abiura dei 5 Stelle dalla loro più profonda identità?

Perché, al di là dell’effimera geometria parlamentare di cui sopra, il significato profondo dell’avvento del messia Draghi è assai evidente: esce di scena il tentativo di risposta (fallimentare, caotico) alla domanda di giustizia ed eguaglianza suscitata dalla dittatura del mercato internazionale e dell’establishment ad esso legato; e rientra in scena, attraverso un suo gran sacerdote, esattamente quel mercato e quell’establishment. Passiamo da una cura inadeguata e sbagliata, al ritorno in grande stile della malattia. Vista dal punto di vista della grande maggioranza del Paese (chi vive del proprio lavoro, e chi lavoro non ha), è una netta regressione.

A dirlo è la storia dello stesso presidente del consiglio incaricato. Marco Revelli ha ricordato, su questo sito (https://volerelaluna.it/controcanto/2020/03/29/draghi-lupi-faine-e-sciacalli/), il ruolo centrale avuto da Draghi (come direttore generale del Tesoro per dieci anni cruciali dal 1991 al 2001) nella svendita del patrimonio pubblico italiano. Nella brutale sintesi di Francesco Cossiga (una volta tanto lucido): «il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica: la svendita dell’industria pubblica italiana quando era direttore generale del Tesoro […]». Cossiga aggiungeva che «non si può nominare presidente del Consiglio dei ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana». Uno scrupolo che evidentemente Sergio Mattarella non nutre.

Naturalmente, tutto questo non significa che Draghi non capisca la delicatezza della situazione, e non provi a governare in un’altra direzione. Come ha scritto il direttore della rivista Il Mulino, Mario Ricciardi: «Ciò che Mario Draghi ha fatto in passato, come civil servant e come banchiere centrale, non consente di affermare con certezza in che direzione si orienterà la sua azione in futuro. L’uomo ha mostrato, anche di recente, di essere un pragmatista. La situazione, anche a livello internazionale, non è più quella del 2008. Dogmi sono stati messi in discussione, nuove minacce si sono palesate, che in Italia destano grande preoccupazione». Ma, aggiunge giustamente Ricciardi, «sul piano strettamente politico questo comporta resistere alla pressione, evidente in alcune tra le reazioni alla convocazione di Draghi al Quirinale, di chi non vede l’ora di chiudere la stagione sfortunata dell’alleanza tra Pd e M5s, vedendo nella caduta del governo Conte il segnale di un ritorno alla normalità: la vittoria finale dei competenti sugli incompetenti, il trionfo della meritocrazia sull’arroganza dei mediocri. […] L’idea di un’aristocrazia che si autoproclama tale è una pericolosa illusione, che non può che aumentare ulteriormente, e in modo pernicioso, il solco tra istituzioni e società civile, tra classi dirigenti e cittadini. […] Un’aristocrazia di cosmopoliti il cui principale interesse è la mobilità del capitale finanziario non può andare lontano quando entra in conflitto con una parte consistente della popolazione». Un’aristocrazia a cui credono di appartenere, per esempio, i grandi magnati italiani padroni dei giornaloni che ora spandono nuvole di incenso intorno a Draghi – e al sicario di Rignano.

Le prime parole di Draghi da presidente incaricato hanno menzionato la «possibilità di operare con uno sguardo attento alle future generazioni e alla coesione sociale». “Coesione sociale” può voler dire cose molto diverse: il desiderio della suddetta aristocrazia di strozzare il conflitto sociale, per non vedere il sangue per strada quando scende dal superattico; o, al contrario, un obiettivo di pace sociale da raggiungere attraverso la giustizia sociale. Ora, il passaggio centrale del discorso di Draghi al meeting di Comunione e Liberazione della scorsa estate invocava un unico dogma, anzi un “imperativo assoluto”: «Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto: perché le politiche economiche oggi perseguite siano sostenibili, per dare sicurezza di reddito specialmente ai più poveri» (https://volerelaluna.it/controcanto/2020/08/22/le-favole-draghi-e-il-pd/). Se questa è la prospettiva, siamo saldamente dentro la logica suicida di una crescita infinita e produttrice di iniquità letali, appena mascherata da sostenibilità e compassione. Intendiamoci, non che con Conte e la sua maggioranza fossimo su una linea alternativa: ma così si torna all’ortodossia mortale del pensiero unico.

Manca, come sempre, uno sguardo di sinistra: come certifica, tragicomicamente, l’apertura a Draghi da parte delle frattaglie cucite in Liberi e Uguali. Quello sguardo dal basso, icasticamente presente in un tweet di Mauro Vanetti: «Hai poco da compiacerti della competenza del cuoco, se sei un ingrediente».

Già nel 1970 un pensatore profetico come Ivan Illich poteva scrivere che «la questione centrale del nostro tempo rimane quella che i ricchi vanno diventando ancora più ricchi, i poveri ancora più poveri». Il fatto che, cinquant’anni dopo, l’Italia si affidi a un Mario Draghi, fa pensare che siamo ancora ben lontani non dico dall’invertire la rotta, ma anche solo dal capire che quella è davvero, e sempre di più, la questione centrale.  

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