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La ricreazione è finita? Da una cura inadeguata al ritorno della malattia

La ricreazione è finita? Da una cura inadeguata al ritorno della malattia

Tratto da: Adista Documenti n° 8 del 27/02/2021

DOC-3115. ROMA-ADISTA. Che sia esplosa una Draghi-mania non sorprende più di tanto: era successo un po' anche con Monti e si sa bene come poi siano andate le cose. Fa un po' impressione, invece, come anche in alcuni ambienti progressisti, almeno fino alla presentazione della lista dei ministri, si sia guardato al nuovo presidente del Consiglio come a un salvatore della patria. Come se Draghi non rappresentasse semplicemente il trionfo del mercato sullo Stato, come indicano Tomaso Montanari e Marco Bersani negli interventi che riportiamo di seguito.

Se di un salvatore si tratta, è chiaro, non è certo della patria, bensì di una «narrazione liberista» in cui, commenta Bersani, la pandemia ha aperto «faglie gigantesche». Come se, «dopo aver cantato le lodi di un’Unione Europea che apre i cordoni della borsa in soccorso dei suoi abitanti», sia giunto il momento «che siano chiare a tutti almeno due cose: “il pasto non è gratis” e per averlo dovete fare le riforme (as usual); “la ricreazione è finita”».

Con Draghi, il grande custode del sistema bancario internazionale, esce dunque di scena, sottolinea Montanari, «il tentativo di risposta (fallimentare, caotico) alla domanda di giustizia ed eguaglianza suscitata dalla dittatura del mercato internazionale e dell’establishment ad esso legato; e rientra in scena, attraverso un suo gran sacerdote, esattamente quel mercato e quell’establishment. Passiamo da una cura inadeguata e sbagliata, al ritorno in grande stile della malattia».

È in questo quadro che si assiste al tentativo di ridurre quanto più possibile il danno che provocherà al Paese un governo presieduto da Draghi, nato dall'irresponsabile manovra di potere di Renzi – dalla stessa sua «disinteressata dedizione agli interessi del Paese che è apparsa nel mostruoso episodio saudita», come non manca di evidenziare Montanari –, sostenuto anche da un Salvini che ha superato se stesso realizzando la più spregiudicata delle sue giravolte e composto da ministri come Brunetta, Gelmini e Carfagna.

La riduzione del danno si chiama Ministero della transizione ecologica, ma rischia di essere nient'altro che un'illusione. Perché, come ha commentato Paolo Pileri su Altreconomia (11/2), un «cambiamento epocale» ci sarebbe «se questo ministero prendesse il posto del ministero dello Sviluppo economico», in quanto «il nostro problema, da decenni, è proprio il fatto che nella compagine di governo il ministero dell’Ambiente vale come il due di picche», mentre «le decisioni di investimento, di grandi opere, di modello di sviluppo e così via sono prese di fatto bypassando il ministro dell’Ambiente o mettendolo in una condizione di supina accettazione». Pertanto, prosegue, «la prima cosa da dirci e da dire è che la sfida della transizione va indirizzata sul bersaglio giusto e non è una cosa che riguarda solo i parchi, le riserve, i rifiuti, eccetera. È l’economia che deve cambiare. È il consumismo come norma sociale ciò che devono estirpare». Cosicché – ha scritto Pileri prima che la nomina di Roberto Cingolani, responsabile del dipartimento tecnologia e innovazione del gruppo Leonardo, l’ex Finmeccanica, ridimensionasse ulteriormente le illusioni – «chiunque sarà il ministro della transizione ecologica dovrà innanzitutto spiegare che con la tutela ambientale noi possiamo generare centinaia di migliaia di posti di lavoro green e dignitosi. Dovrà convincere i cittadini e le imprese che la manutenzione del territorio è la nostra prima e più importante opera pubblica, che il Piano di ripresa e resilienza si è dimenticato. Dovrà spiegare che non esistono solo le nove grandi città italiane sulle quali investire, ma anzi che bisognerà capovolgere l’agenda delle priorità e partire dagli ultimi: i piccoli Comuni, le aree interne, le fragilità territoriali».

Eppure alla possibilità di un cambiamento vogliono provare a crederci associazioni come Greenpeace Italia, Legambiente e Wwf che, ricevute da Draghi, hanno considerato l'incontro come «un segnale importante sulla centralità delle politiche ambientali e climatiche», auspicando ora che il Recovery Plan italiano venga allineato al Green Deal europeo «con obiettivi più ambiziosi, una nuova stagione di semplificazioni, partecipazione territoriale e controlli efficaci».

A Draghi le associazioni ambientaliste hanno illustrato le loro proposte per modificare radicalmente il Recovery Plan redatto dal precedente governo, approfondendo temi specifici come lo sviluppo delle rinnovabili, «la cui velocità di espansione deve crescere di 5-6 volte rispetto alla situazione attuale» e deve essere accompagnata dall’eliminazione graduale dei sussidi ambientalmente dannosi, l’economia circolare, la mobilità sostenibile, la promozione di «una giusta transizione in quei territori al centro di vertenze ambientali e occupazionali molto pesanti (come, ad esempio, Taranto, Brindisi, il Sulcis, Gela e il siracusano)», l’agroecologia, puntando sull'incremento del biologico e riducendo le emissioni agricole e zootecniche, le aree protette, «la tutela del nostro patri- monio naturale, asset fondamentale per la salute, la sicurezza, il benessere e il rilancio del nostro Paese (che vanta una delle più ricche biodiversità d’Europa)».

E lascia aperto uno spiraglio anche Giulio Marcon di Sbilanciamoci!, secondo cui i paragoni tra Monti e Draghi sarebbero fuori luogo in virtù della diversa storia personale dei due tecnici, del distinto ancoraggio culturale e del mutato contesto. Cosicché, in presenza di tante incognite, sarebbe meglio attendere il governo alla prova dei fatti.

Qui, l’intervento di Tomaso Montanari (https://volerelaluna.it, 4/2)

qui, l’intervento di Marco Bersani (www.retidipace.it, 4/2)

e

qui, quello di Giulio Marcon (https://sbilanciamoci.info, 7/2). 

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