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Draghi, il pilota automatico dei mercati

Draghi, il pilota automatico dei mercati

Tratto da: Adista Documenti n° 8 del 27/02/2021

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«L’Italia è in guerra. Ha un comando e degli alleati. L’attende, non si sa quando, un dopoguerra molto difficile, dato che era entrata in guerra già in condizioni di debolezza cronica. (...) oggi vi sono ragioni eccezionali per non curarsi troppo dell’aumento del debito, ma presto verrà reintrodotta una disciplina di disavanzi e debiti pubblici, e noi più di altri arriveremo a quell’appuntamento dopo l’impennata di questi anni; inoltre, la “revisione strategica” della politica della Bce, che Christine Lagarde ha avviato, difficilmente permetterà di fare affidamento a lungo sulla possibilità di finanziare a costo zero il disavanzo italiano».

Sono le parole con le quali, non più tardi di due settimane fa, il senatore Monti, fratello gemello per via paterna – Goldman Sachs – del neo incaricato Mario Draghi, esprimeva una stiracchiata fiducia all’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.

Più che una dichiarazione di fiducia, le parole di Monti sono sembrate un viatico all’avvicendamento, che da ieri è divenuto realtà con l’incarico a Mario Draghi a formare un governo, e la conferma di come ad ogni crisi corrisponda un commissariamento della politica e della democrazia (così fu con Ciampi dopo tangentopoli e con lo stesso Monti dopo la crisi finanziaria del decennio scorso).

L’obiettivo è un governo di “salute pubblica”, che, in un Paese immerso nella pandemia e con un piano vaccinale che procede alla “lasciate ogni Speranza o voi che entrate”, appare un vero e proprio ossimoro.

Arriva dunque Supermario a mettere finalmente ordine in palazzi istituzionali dove è bastato un piccolo narciso a far saltare le magnifiche sorti e progressive di un governo e del suo Recovery Plan che si poneva nientepopodimeno che l’obiettivo di un “nuovo Rinascimento italiano”.

E arriva con le forze politiche pronte a far da damigelle trasversali e un coro di luoghi comuni a tributarne il passaggio: «Ha salvato l’Europa, è l’uomo giusto per l’Italia», «Finalmente qualcuno che saprà come spendere i soldi del Next Generation Ue», «Adesso in Europa andremo a testa alta», «Basta con la burocrazia, ecco uno che decide » e via cantando.

La narrazione mainstream racconta l’arrivo di Mario Draghi come l’avvento della competenza a fronte dell’improvvisazione, della capacità strategica di fronte al vivacchiare alla giornata, dell’autorevolezza contro l’irrilevanza. Ammessa la parte di vero di queste qualità, niente essendo neutro, occorre forse capire al servizio di cosa verranno spese.

Per rispondere al quesito, forse aiuta fare alcuni passi indietro nella biografia politica ed economica del grande devoto di S. Ignazio di Loyola.

a) La festa alla Res publica

«Il Maestro della Casa Reale ha avuto l’ordine dalla Regina di invitarla a bordo del Britannia, lo Yacht di Sua Maestà»: fu questo l’aulico invito con il quale, il 2 giugno 1992, banchieri italiani, boiardi e grand commis di Stato salirono a bordo del panfilo più blasonato del mondo, che, in viaggio per Malta, fece una sosta al porto di Civitavecchia. A bordo non cavalieri e dame, ma finanzieri della società “British Invisibles”, una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. L’oggetto dell’incontro era l’imminente avvio del capitolo delle privatizzazioni in Italia e fra i partecipanti, il cui elenco preciso non si è mai saputo con certezza, non è mai stata messa in dubbio la presenza di Mario Draghi, divenuto l’anno prima Direttore Generale del Ministero del Tesoro.

Il 2 giugno del 1992 era festa della Repubblica, ma quel giorno ciò a cui si diede avvio fu la festa alla Res publica che attraversò l’intero decennio, certificata con queste parole nel Libro Bianco sulle privatizzazioni, curato nel 2001 dal Dipartimento del Tesoro: «Questo "Libro Bianco" sulle Privatizzazioni vede la luce al termine di una legislatura nel corso della quale tutti gli obiettivi di dismissioni che erano stati stabiliti sono stati raggiunti e superati. La legislatura si conclude, infatti, con la pressoché totale fuoruscita dello Stato dalla maggior parte dei settori imprenditoriali dei quali, per oltre mezzo secolo, era stato, nel bene e nel male, titolare».

Il 2001 è anche l’anno del passaggio di Mario Draghi dalla Direzione Generale del Ministero del Tesoro a Vice Chairman e Managing Director di Goldman Sachs (una delle più grandi banche d’affari del mondo) per guidarne le strategie europee.

b) La parentesi greca

Mario Draghi rimase alla Goldman Sachs fino al 2005, in quella che per lui fu una breve parentesi, ma per la popolazione greca fu l’inizio dell’incubo. Fu infatti alla Goldman Sachs che si rivolse nel 2001 l’allora governo greco, che aveva la stretta necessità di ridurre i parametri del debito pubblico per poter entrare nell’Unione Europea. L’aiuto consistette in un contratto finanziario derivato che permise al governo greco di occultare 2,8 miliardi dal bilancio, la cifra necessaria per mostrare i conti in ordine. Per finanziare il primo swap, la Grecia ne sottoscrisse con Goldman Sachs un secondo, che in breve tempo, complici le turbolenze finanziarie successive all’attentato alle Torri Gemelle, fece esplodere i conti e diede l’avvio alla crisi greca che ormai tutti conosciamo. Sebbene non sia stato Mario Draghi in persona a condurre queste operazioni, difficile credere che siano avvenute a sua insaputa.

c) Caro amico ti scrivo

Dal 2005 al 2011, il nostro diventa Governatore della Banca d’Italia e chiude il suo mandato con l’ormai celebre lettera, inviata da lui e dall’allora presidente della Banca Centrale Europea al governo italiano, dando il via alla costruzione artificiale della trappola del debito. Nella lettera si chiedono esplicitamente:

1) la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, in particolare nella fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala (erano passati solo due mesi dal vittorioso referendum per l’acqua pubblica);

2) la riforma dei contratti di lavoro per rendere i contratti aziendali “più rilevanti” rispetto a quelli nazionali; la riforma dei licenziamenti accompagnata da un sistema di assicurazione sulla disoccupazione e di ricollocamento al lavoro;

3) l’anticipo sul conseguimento del pareggio di bilancio “principalmente attraverso tagli di spesa”, in particolare sulle pensioni e sul pubblico impiego, se necessario riducendo gli stipendi; l’introduzione di una “clausola di riduzione automatica del deficit”; la messa “sotto stretto controllo” dell’indebitamento delle Regioni e degli enti locali anche con “una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio”.

4) la riforma in senso aziendalista e privatistico dell’amministrazione pubblica.

d) Whatever it takes

“Tutto ciò che serve” fu il motto che ha reso famoso Mario Draghi nel ruolo di Presidente della Banca Centrale Europa, ricoperto dal 2011 al 2019. Una politica monetaria basata su massicce iniezioni di liquidità finanziaria sui mercati, da tutti salutata come la salvezza dell’Europa.

Ma fu vera gloria? Non si direbbe. Perché, se, da una parte, la Bce ha messo una pezza per salvare i bilanci delle banche europee pieni di titoli tossici (concentrati per il 75% negli istituti di Francia e Germania) e di crediti deteriorati, e per non far crollare del tutto le economie di Paesi in difficoltà, dall’altra, non ha raggiunto l’obiettivo dichiarato di far uscire l’eurozona dalla crisi. L’idea di immettere denaro nelle riserve bancarie, al fine di incentivare le banche a concedere prestiti a famiglie e imprese ha continuato ad essere l’illusione degli economisti mainstream: i dati del Quantitave Easing segnalano il fallimento del progetto: i prestiti alle famiglie sono aumentati meno dell’1%, mentre non più del 27% dell’espansione del bilancio della Bce si è tradotto in prestiti all’economia reale.

Ma un’altra sua storica frase del medesimo periodo andrebbe ricordata: «i mercati non temono le elezioni, le riforme hanno il pilota automatico». Con l’attuale incarico a Draghi potremmo così declinarla: «i mercati non temono le elezioni, nel caso prendono il governo direttamente».

Perché Mario Draghi ora

Visto il curriculum, dovrebbe essere ora più chiaro il perché dell’incarico a Mario Draghi. La pandemia ha aperto faglie gigantesche nella narrazione liberista, costringendo a sospendere in una notte la trappola del debito e i vincoli finanziari, attraverso i quali si è costruita per decenni la gabbia dell’austerità e delle privatizzazioni.

Non solo: ha reso evidente come una società fondata sul mercato non sia in grado di garantire protezione ad alcuno e come sia sempre più urgente e necessario uscire dall’economia del profitto per costruire un’alternativa di società fondata sul prendersi cura, sulla conversione ecologica della produzione, sui beni comuni, su garanzie di reddito e diritti per tutti, su una nuova democrazia partecipativa.

Sirene il cui canto può risvegliare una società frammentata, scientemente costretta a vivere nella solitudine competitiva, e produrre il terremoto della solidarietà e della cooperazione. La possibilità di fare investimenti, straordinariamente concessa data l’enormità dell’emergenza, non deve produrre aspettative che facciano da detonatore a mobilitazioni sociali e a rivendicazioni di cambiamento sociale.

Dopo aver cantato le lodi di un’Unione Europea che apre i cordoni della borsa in soccorso dei suoi abitanti, è giunto il tempo che siano chiare a tutti almeno due cose: “il pasto non è gratis” e per averlo dovete fare le riforme (as usual); “la ricreazione è finita” e viene il tempo di far propria la filosofia morale di un altro emerito professore, Padoa Schioppa: «Le riforme devono essere guidate da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità».

«Meno male che la gente non capisce il nostro sistema bancario e finanziario, perché se lo capisse, credo che prima di domani scoppierebbe una rivoluzione», disse l’industriale Henry Ford.

È passato un secolo da allora, è giunto il momento di capire e di agire.

E di farlo tutti/e insieme.

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