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Credere rinunciando a ogni immagine del divino

Credere rinunciando a ogni immagine del divino

Tratto da: Adista Documenti n° 43 del 04/12/2021

1. Il Dio dell’Esodo

Se è un’enorme fatica rinunciare all’immagine figurata del Dio onnipotente arbitro delle nostre vicende personali (le famigerate “imperscrutabili vie del Signore”), non meno ardua è quella di depurare la mia immaginazione dalla figura di Jahvè signore della Storia, segreto regista degli eventi globali. Perché ora so che quella era l’immagine nazionalistica di un dio etnico non più compatibile con la mia sensibilità: era il Dio condottiero, protagonista onnipresente dell’Esodo e dell’intera storia ebraica, di cui tanti di noi si erano innamorati negli anni ‘60/‘80 perché indiscutibile artefice dell’imminente liberazione globale dell’umanità dalle mascelle voraci del capitale e dall’ingiusta voracità dei padroni sovranazionali, ricchi Epuloni destinati al suo inferno.

Ma esiste davvero un Dio signore della Storia, come credettero Mosè e gli ebrei del Sinai, convinti di averlo al loro fianco quando, occupata con le armi la terra dei Cananei, edificarono su quel fondamento religioso spiccatamente nazionalistico (cioè etnico, cioè, per dirla tutta, anche razziale e razzista) di una delle prime teocrazie assolute? Un Dio padrone della Storia che alimentano con il proprio furore aggressivo e distruttivo non solo le giuste rivendicazioni dei campesinos depredati in America Latina della loro terra, ma anche i fondamentalismi armati di oggi, vuoi talebani, vuoi dell’Isis o delle repubbliche islamiche? E se davvero esiste quel Dio signore dell’Esodo e della Storia, non è stato troppo spesso latitante, non solo in terra di Giudea (dove né il Cristo né i tanti ribelli ebrei riuscirono a restituirgli il suo trono né a vedere il suo Regno)? È il Signore della Storia che permette la Shoah, i massacri dell’Uganda, gli sterminii per carestia nell’Africa Subsahariana, le tendopoli delle masse in fuga dalle proprie terre, il naufragio dei barconi nel Mediterraneo? E che Dio della speranza potrà mai essere in verità quello che prima di veder affermare (almeno formalmente) i “diritti dell’uomo” ha lasciato consumarsi guerre, stermini, stragi, massacri che non val neppure la pena di nominare, non di rado compiuti in suo nome?

Anche dall’immagine di questo Dio abbiamo preso congedo, senza per questo sottrarci al nostro impegno per cambiare il mondo, trovando magari un maestro perfino in un ateo dichiarato come Gino Strada.

2. Il Creatore licenziato

Non è questo il luogo in cui riaprire neppure il discorso sul tramonto dell’immagine millenaria del Dio creatore (e del culto della Madre Terra, oggi soppiantato da quello ecologico di Madre Natura), riposto ormai nei ricordi del passato grazie alle scoperte dirompenti delle scienze fisiche e biologiche. Discorsi ormai acquisiti anche quelli che hanno smantellato il generoso stratagemma escogitato da quei teologi che per riservare un ruolo al Dio del teismo ne hanno fatto il Grande Architetto del “Disegno intelligente”: l’evoluzione, per loro, starebbe sotto il segno invisibile ma decisivo di una volontà che, operando all’inizio dei tempi come motore delle trasformazioni della mate ria, ha condotto il big bang a fare dell’uomo il compimento finale della storia del mondo e della vita. Tentativo bello e geniale, ammettiamolo, anche perché non dimostrabile: ma comunque connotato da una crudele ingenuità, perché vorrebbe farci credere che tutta la sterminata, indescrivibile sofferenza di esseri viventi (compresi i nostri atavici precursori umani) era finalizzata alla nostra – per quanto parziale e momentanea – felicità. Si tratta di una teoria di cui bisognerebbe convincere anzitutto gli uomini del paleolitico che non arrivavano a vivere vent’anni e si deliziavano spesso a finire i loro giorni sotto i denti affilati di qualche predatore o in balìa degli spasmi provocati da innocenti virus, complici inconsapevoli del Disegno Intelligentissimo ma anche super-sadico dell’Artefice iniziale, operante nel mondo attraverso la spietata saggezza delle Leggi di Natura (e Hitler sarebbe stato pronto a dichiararsi lui stesso strumento, con i suoi lager e le sue camere a gas, di questa divina progettazione, come Pol Pot e qualunque altro carnefice coi suoi attrezzi di sterminio dei deboli e degli inadeguati al futuro della storia). E che consolazione sarebbe quella di credere che tutto il dolore di chi ci ha preceduto è servito solo ai fugaci momenti di benessere delle nostre momentanee e brevi esistenze? Ne sarebbe davvero valsa la pena?

3. Quale morte di Dio?

Non è stata un’invenzione di Spong, Vigil e Lenaers l’archiviazione, alla vigilia degli anni 2000, dell’immaginario religioso del teismo tradizionale. Il primo ardito passo, dopo la scandalosa provocazione di Nietzsche, era infatti già stato compiuto dai primi teologi della cosiddetta “morte di Dio” negli anni ‘60/‘70 (Robinson, Altizer, Vahanian, Van Buren). Ma il più radicale denudamento della fede cristiana che meritava d’essere spogliata dei suoi abiti religiosi era stato ancor prima operato, nel cuore della Seconda Guerra mondiale, da quel profeta insuperato che fu Dietrich Bonhoeffer che, non senza pagare il prezzo più duro, osò lietamente e in piena onestà, mostrarci la strada di una fede radicalmente “laica” che non aveva più alcun bisogno di un Dio per tappare i buchi delle proprie fragilità e insufficienze. Un’impresa che ci ha spinto al limite delle nostre possibilità, ma l’unica che – a mio avviso – valga ancora oggi la pena di tentare se vogliamo provare a credere rinunciando a ogni immagine del divino.

Per parte mia, credo che sia tempo, come ci invita a fare Panikkar, di assumere, proprio come credenti, la posizione liberante dell’a-teismo, avendo ben chiaro che quel trattino è per noi irrinunciabile. Perché sta a dire che possiamo finalmente liberarci della teologia (il discorso su Dio) per accogliere gioiosamente la possibilità – non obbligatoria – della teo-afasia (il non-discorso su Dio), o per esser ancora più radicali ed espliciti, la teo-sighìa (il silenzio su Dio). Niente di nuovo, a dir il vero: si tratta di un semplice ritorno alla teologia “apofatica” (quella che si allontana dalla parola, rinunciandovi totalmente) già praticato nei primi secoli della vicenda cristiana. In breve: del “divino” possiamo solo dire ciò che non è. Sicuramente non è tutte le immagini che vogliamo farci per rappresentarlo in modo sia figurato che concettuale. Non è dunque blasfemo pensare il Nulla, se con questa parola intendiamo non il niente ma “non-cosa”, nessuna cosa. Pensarlo come, allora? Eccoci di nuovo ricondotti alla nostra condizione umana che ha bisogno spasmodico di un tu da cui essere guardato e ascoltato, cioè riconosciuto!

4. Il Dio-Tu?

Dire “tu”, per noi uomini e donne dotati di un corpo e dunque di una persona, significa sempre immaginarci una “persona” che stia di fronte a noi. Adista, in questi mesi, ha già pubblicato un prezioso dossier con interventi di numerosi amici credenti che hanno voluto riaffermare con estremo vigore l’inestinguibile necessità di concepire Dio come il ”Tu” personale con cui intratteniamo un dialogo esistenziale, pena lo svuotamento della nostra fede cristiana. Perché abbiamo assolutamente bisogno di “Qualcuno” a cui non potremmo negare il tratto essenziale di ciò che per noi significa l’essere persona: la possibilità di “volere”. Perché se nessuno ci vuole, siamo davvero polvere di stelle momentaneamente e casualmente aggregata – senza dignità né valore – in una forma umana da subito destinata a un’insensata e definitiva dissoluzione.

Capisco la fondatezza di questa istanza e la rispetto e ammetto che io stesso ne sento il prepotente, irrefrenabile bisogno. Ma basta questo ad autorizzarmi a farmi un’immagine personale (cioè a me così somigliante) del Mistero che i mistici hanno sperimentato come l’ineffabile, indefinibile, inimmaginabile Nulla? Il fatto che io ne abbia bisogno mi autorizza a crearmi uno specchio in cui pretendere di vedere il divino? O almeno di ascoltarne la voce? Può essere il mio desiderio il fondamento dell’esistenza del Dio-Tu, del Dio-Persona?

Lo ripeto, con grande rispetto per la sensibilità e le convinzioni dei fratelli: io non voglio insegnar niente a nessuno e quelle che qui esprimo sono le mie sincere riserve, che valgono solo per me. Con questo stato d’animo confesso di essere disposto a mettere in discussione anche ciò di cui io stesso sento un grande bisogno, ma temo sia ancora un’immagine antropomorfa del divino.

5. Pensare il Nulla?

No, pensare il nulla non ci è possibile. Il nostro cervello quando pensa non può che pensare dandosi un oggetto di pensiero. Perfino il vuoto è un’immagine! È la rappresentazione – come dice la parola stessa – di un contenitore (quale? Ah, saperlo!) che non contiene alcunché. Noi stiamo dunque su questa lama di rasoio: il voler pensare il divino senza farcene alcuna immagine, pur sapendo che non siamo capaci di pensare senza immagini, figurate o concettuali che siano. Che fare dunque?

Credo che possiamo anche arrenderci alla nostra condizione di creature che pensano per immagini, ma prendendo onestamente atto del nostro limite, nella consapevolezza di non poter più appagarci di infantili immagini dell’Ineffabile, né escogitare furbe ma fallimentari scappatoie per provare a rappresentarcelo. Sì, possiamo assumere la nostra condizione umana accettando anche i limiti del nostro linguaggio e prima ancora del nostro pensiero, cioè in definitiva del nostro cervello. Non possiamo farci nulla: è il suo modus operandi. Possiamo allora tentare questa impresa disperata: vivere al cospetto dell’Indicibile, dell’Impensabile, dell’Inimmaginabile, senza curarci dell’imperfezione delle immagini che non riusciamo a non farcene e sempre impegnati ad aver coscienza della loro inadeguatezza, insufficienza, perfino falsità.

Ogni nostra parola sul divino è sempre un “feticcio” di cui dobbiamo liberarci e a cui non dobbiamo rendere onore, semplicemente perché feticcio (dal latino facticium) è “ciò che è fatto dalla mano umana”, e dunque ancor prima dalla sua mente. Se dunque la fede biblica ci impone di rinunciare a tutti gli idoli (d’oro, di legno, d’argilla...) creati dall’artefice umano, non dobbiamo aver paura di distruggere anche tutte le immagini mentali che possiamo e vogliamo farcene sapendo che sono nient’altro che feticci.

6. Dio, parola limite

Possiamo anche usarla, perciò, oggi la parola “Dio” rinunciando a ogni immagine del Mistero e solo come parola-limite, cioè come parola-frontiera, per dire il nostro non-sapere, il nostro non-essere-padroni della nostra stessa esistenza e per definirla invece come un dono di cui non siamo debitori solo al meccanismo casuale della trasmigrazione della vita da un grumo di polvere a un altro.

Mi pare di poter dire che questo è, o potrebbe essere, molto cristiano, anche se siamo nell’orizzonte del post-teismo e non pretendiamo più di avere un Dio a nostra disposizione, da impetrare lagnandoci dei nostri mali e da adorare come fossimo sudditi di un imperatore. Le pagine del Vangelo, se leggiamo con onestà, traboccano non solo dei prodigi di Gesù, che schiude orizzonti nuovi e ritenuti impossibili, ma anche di momenti di resa: «O Gerusalemme, Gerusalemme, quante volte ho provato a radunare i tuoi figli!», «Se non vi accolgono nei villaggi dove vi ho mandato, andatevene via e scuotete la loro polvere dai vostri sandali», «Il giovane ricco si allontanò tristemente...», fino alla resa decisiva: non solo nel Getsemani, ma proprio sulla croce: «Mio Signore, perché mi hai abbandonato?». Ma non è la resa di chi rimpiange di aver lavorato e amato invano. Infatti se nel vangelo di Giovanni l’ultima parola del crocefisso è “consummatum est”, cioè “è finita, è andata così purtroppo”, in quello di Luca la resa di Gesù – nonostante il tradimento subito da parte di quel Padre che lo ha abbandonato e disconosciuto davanti al mondo – sfocia nella restituzione di ciò che Gesù sente di aver avuto in dono: la propria vita. «Nelle tue mani rendo il mio respiro», di più non potevo fare.

Credo che il post-teismo possa condurci proprio qui. Nella presa d’atto di non poter contare su un Dio onnipotente e al tempo stesso a una piena dedizione alla causa della vita e della giusta fraternità umana, accada quel che accada.

Se poi un giorno «lo conosceremo perfettamente», come promette Paolo ai Corinti, non è affar nostro saperlo né deciderlo, e neppure desiderarlo. Anzi, non possiamo neppure escludere che quel momento sia proprio adesso, perché il Mistero che si svela non è più mistero, ma diventa solo una cosa fra le cose.

Gilberto Squizzato è regista televisivo, saggista, da anni teorico di una fede “laica”. Con Gabrielli Editori ha pubblicato Il miracolo superfluoIl Dio che non è "Dio" e Se il cielo adesso è vuoto. È possibile credere in Gesù nell'età post-religiosa?.

Dipinto di Maximino Cerezo Barredo, per gentile concessione dell'autore.

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