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L’Europa-fortezza non è la nostra Europa

L’Europa-fortezza non è la nostra Europa

 

 

25 Novembre 2021 by c3dem_admin | 1 Comment

Editoriale di Guido Formigoni, docente di Storia contemporanea presso l’Università Iulm, già presidente dell’associazione Città dell’uomo e direttore di «Appunti di cultura e politica», sul portale di cattolici democratici 3Cdem. La riflessione di Formigoni parte dal concetto  di Europa-fortezza che ritiene di alzare barriere di fornte ai gravi problemi del mondo contemporaneo che spingono masse di persone a spostarsi in cerca di una vita migliore.

L'articolo originale può essere consultato a questo link

 

 

Le immagini struggenti che ci arrivano dall’odissea dei migranti al confine bielorusso-polacco sono insostenibili. E purtroppo non ha nessun senso attribuirle semplicemente alle mene dell’autocrate Lukashenko di Minsk, o alle sottili manovre politiche del suo mentore Putin. Tutta la colpa non può nemmeno ricadere sull’arcigno governo sovranista di Varsavia, che progetta muri e reticolati di filo spinato, rifiutando la benché minima quota di rifugiati. Tutti attori di primissimo piano, tutti aspetti incontestabili del quadro, si badi bene. Ma tutti elementi che appaiono soltanto parziali. Diciamo la verità intera: quel dramma parla di una Europa che non riesce a gestire come un dato di fatto ordinario i fenomeni della migrazione di qualche decina di migliaia di esseri umani sospinti dal bisogno, dalla fuga da condizioni inaccettabili o dalla comprensibile voglia di miglioramento della propria vita.

Infatti, la blindatura del confine orientale va messa assieme alle condizioni tragiche dei campi di Lesbo, o alle prigioni nascoste di Tripoli e Bengasi. Va collegata ai lutti che contrassegnano le rotte navali del Mediterraneo. Va messa nello stesso paniere rispetto alla montagna di soldi che l’Unione spende in finanziamenti ai paesi africani per limitare le tratte migratorie. In sostanza, sembra proprio che non ci siano alternative a un’Europa-fortezza che si illude ogni giorno di poter rinsaldare le proprie mura e, ritirato il ponte levatoio, pensa di poter dormire sonni tranquilli allontanando le immagini di un mondo che brucia.

In questo contesto, non possiamo che ribadire come questa non sia la nostra Europa. Continuiamo a pensare sia possibile un’Europa diversa. Come si può ragionare per un cambiamento di linea profondo e duraturo? Come avvicinarci senza avventatezze, con responsabilità politica e ottica socialmente e culturalmente sostenibile, a una gestione migliore di quella che palesemente non è un’emergenza, ma un elemento ineliminabile dell’attuale globalizzazione?

  1. Il nodo essenziale è ripensare le politiche migratorie dei paesi europei (in mondo congiunto con un coordinamento europeo onde evitare squilibri), in modo da ricostituire forme di flussi legali di ingressi motivati dalla ricerca di lavoro, e quindi sgonfiare il numero dei richiedenti asilo, ultimamente ingrossato proprio per la carenza di alternative. Sappiamo che la differenza tra «asilanti» sospinti dalla persecuzione e migranti economici è solo parziale e incerta, ma il dato di fatto attuale è che tutti chiedono asilo politico perché non ci sono alternative praticabili. Ci sono invece da tempo proposte articolate in materia, che si potrebbero sperimentare e migliorare gradualmente, per creare altri canali legati alla ricerca di lavoro. La ripresa economica europea dopo la crisi della pandemia chiede del resto ingressi nuovi, perché il mercato del lavoro ha ripreso a tirare, anche a proposito di posizioni sostanzialmente ricoperte soltanto da stranieri. Si legge sui giornali di ristoranti che ormai non trovano più camerieri… Cogliamo quindi l’occasione contingente, una volta per tutte, per ripensare organicamente il sistema.
  2. Sul tema più specifico – e quindi auspicabilmente in prospettiva più circoscritto – dei rifugiati e del diritto di asilo, è arrivato il momento di rivedere il regolamento di Dublino e di approvare un nuovo patto europeo che riesca a cambiare l’attuale insostenibile situazione per cui alcuni paesi di frontiera restano soli a gestire l’impatto di flussi consistenti di persone. La Commissione europea ha proposto nel 2020 una riforma, piuttosto limitata e discutibile in quanto centrata soprattutto sulla gestione comune dei respingimenti, ma certo almeno è un punto di partenza. Su quella base si può lavorare per migliorare la proposta: si ricordi peraltro che un nuovo «regolamento» su questi temi può essere comunque varato con la procedura legislativa ordinaria tra consiglio e parlamento europeo a maggioranza (qualificata), senza quindi bisogno di ottenere l’unanimità e tantomeno senza bisogno di modificare i trattati.
  3. Dove sarebbe invece sensato modificare i trattati – sull’onda dell’attuale conferenza in corso sul futuro dell’Europa – è invece sul punto delle competenze, nel quadro dei molteplici livelli di governo dei problemi tipici dal sistema europeo. Rafforzare la competenza dell’Unione sul tema delle politiche migratorie comuni e convergenti e dei controlli della frontiera esterna porterebbe la questione al di fuori dell’angusto orizzonte delle singole politiche nazionali, dove ogni governo rischia di essere alle prese con complicati impatti di breve periodo delle proprie decisioni sull’opinione pubblica. Ancora una volta, se sul punto non si riuscisse a ottenere l’unanimità, occorrerebbe procedere almeno con le cooperazioni rafforzate con i paesi che ci stanno.
  4. Certo, in questo nuovo orizzonte, occorrerebbe costruire un consenso politico diffuso sulle scelte essenziali nella gestione di questi flussi, che sia capace di presentare realisticamente la situazione agli elettorati perplessi, impauriti dalla crisi economica e dalla pandemia e colpiti dalla propaganda xenofoba. Occorre collocare il tema dell’immigrazione in una giusta prospettiva demografica, rappresentare la necessità di investimenti per l’integrazione dei nuovi arrivati, e prospettare concretamente i vantaggi corrispettivi di una crescita economica diffusa e della riduzione dei costi della sicurezza e del contrasto alla criminalità quando tali flussi siano ricondotti nella legalità. Non è discorso che una classe dirigente avveduta non possa fare, tenendo i rapporti ogni giorno con l’opinione pubblica perplessa e soprattutto con i ceti medi svantaggiati e impauriti dalla crisi, oltre che perdenti nelle dinamiche della globalizzazione. Ci vuole caratura politica, certo. Ci vuole attenzione a non proporre queste cose dall’alto di un empireo di privilegiati al volgo insipiente. Ma da un’Europa che sia all’altezza della sua civiltà, una capacità politica di questo genere ce l’aspettiamo tutti.
  5. Non aiuta questo discorso, però, il frequente cedimento di una componente importante della stessa maggioranza che ha sostenuto l’attuale commissione guidata da Ursula von der Leyen, quella del Ppe. Che una personalità importante come il capogruppo al parlamento europeo di quel partito, Manfred Weber, sostenga che la Ue potrebbe aiutare la Polonia a finanziare i muri, può essere anche compreso come un elemento della battaglia politica di posizionamento nel quadro dei prossimi passaggi istituzionali europei, ma è un pessimo segnale sulla tenuta della maggioranza europeista e antisovranista attorno a punti di principio solidi. Bisogna lavorare per ridurre queste fratture e per consolidare una qualche maggioranza in Europa attorno ai perni della solidarietà e dei diritti umani, oltre che della ragionevolezza nella gestione del problema. Senza questa base, non si possono immaginare passi avanti su nessuna delle questioni che abbiamo posto in precedenza.

 

 

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