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Al voto, al voto

Al voto, al voto

Da recuperare gli astenuti, i giovani, i pacifisti, i verdi, le donne. Come sempre? No, con accettazione di diversità culturali ancor più complesse.

Difficile essere convincenti credendo che serva sperare che “domani piova”, quando c’è siccità, o di coinvolgere le donne invitando “vedete? ce n’è una in lista anche con noi”, o sostenendo la spesa militare per l’Ucraina, tanto “l’ha detto anche il papa pacifista”. In quattro anni è sfuggito che FdI passava dal 4 al 32 % dei consensi. Che film si proiettava sul maxischermo italiano mentre i leader compulsavano ormai freneticamente i social e sperimentavano perfino tik-tok?

A questo punto andiamo a votare senza guardare indietro, ma con la schiena antifascista e libertari ben dritta, perché ciascuno è responsabile in proprio al momento del voto. Andiamoci però umiliati dagli errori, dalla presunzione, dell’abbandono della propria comunità negli anni del bisogno (pandemia e guerra) che hanno invece prodotto – come sempre nella storia – la frantumazione interna di ciò che era o si credeva che fosse “la sinistra”. Con il partito che era ormai una camera di compensazione in cui si erano persi dieci anni in attesa della fine dell’Urss.

Già detto che il latte versato non torna nella bottiglia. Però mentre asciughiamo il bagnato - che nessuno scivoli! – cerchiamo di capire che il 26 settembre il problema sarà quello di non cambiare latteria. La sinistra dovrà domandarsi il senso della propria denominazione recuperando l’area larga delle differenze, questa volta “per capire”: una resa dei conti - possibilmente nonviolenta - con le diaspore, le eresie, i fantasmi. E la parola “congresso” smetta di fare così paura da servire solo a nominare i segretari.

Se la democrazia è a rischio” impediamo al cervello di tirare giù la saracinesca. Senza accantonare la colpa della caduta di Draghi (ma nemmeno il no di Fratoianni alla ricapitalizzazione dell’ex-Ilva), ci sono da curare gli investimenti del Prrn che esigono il pagamento di un prezzo chiamato “riforme”. Non sono più dilazionabili per evitare il default sempre dietro le spalle del sistema italico fin dalla prima Repubblica: non si tratta di condizionamenti capitalistici che schiavizzano l’onore dell’Italia; sono aggiustamenti  - non peggioramenti - delle sregolatezze e dei mancati controlli accettati dai nonni. Se quest’anno l’occupazione dei garantiti è cresciuta, ma i padroni cercano lavoratori forniti di competenze per mantenere la produzione mentre i più giovani restano fuori con il Neet al 20 % e un (bel) po’ di lavoro nero, non è stata giustizia sociale avere il bonus pro edilizia al 110%, o il costoso (e a carico del contribuente) reddito di cittadinanza, soprattutto perché non è l’invece necessario salario minimo. Per produrre lavoro occorre la massima progettualità aziendale pubblico/privata in particolare nel campo delle riforme energetiche e ambientali sapendo che si sta resistendo - dentro una guerra - sull’argine dell’inflazione. E seguire l’esempio di Draghi che, da grande statista, ha continuato a lavorare solo per lo stesso bene del paese che produrremo con il voto di domenica prossima: come sempre – anche quando c’erano le ideologie - per essere governati da una democrazia responsabile o dall’autoritarismo illiberale.

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