
Etiopia: grande diga, grande inganno. I popoli indigeni, vittime dello "sviluppo"
Il sito dei comboniani Nigrizia riaccende i riflettori sulla situazione delle popolazioni indigene della bassa valle del fiume Omo, in Etiopia, vittime annunciate delle devastanti ripercussioni di «interventi cosiddetti “di sviluppo”». In particolare, Nigrizia rilancia il dossier dal titolo “La diga e le piantagioni di zucchero provocano fame e morte nella bassa valle dell’Omo in Etiopia”, redatto e diffuso dall’Oakland Institute, think tank indipendente che intende apportare un contributo di idee e proposte coraggiose sulle questioni sociali, economiche e ambientali più urgenti del nostro tempo.
Anche Adista, in passato, ha più volte denunciato il giro di affari – allettanti anche per le aziende italiane, sempre molto attente alla “cooperazione” e allo “sviluppo” dell’Africa – che ruotava intorno ai mega-progetti per la produzione di energia nella valle dell’Omo. Interessi che, per i popoli nativi della regione, si potevano tradurre con ben altre parole: land grabbing, espropriazioni e allontanamenti forzati, reclusione in riserve ghetto, devastazione di ecosistemi, culture ed economie tradizionali, ecosistemi devastati (v. per esempio Adista Notizie n. 4/17).
Oggi, la rivista dei missionari comboniani torna a puntare il dito sul “gigante cattivo”, quella diga Gibe III sul fiume Omo, «costruita dalla ditta italiana Salini Impregilo» e inaugurata nel 2016, che ha visto la luce, dopo anni di polemiche, nonostante «la previsione di un devastante impatto socio-ambientale», ma anche storico e culturale, data la presenza nella zona di importanti ritrovamenti di «reperti paleontologici, fondamentali per la ricostruzione della storia dell’evoluzione umana».
La Gibe III è solo la parte più consistente di un monumentale sistema di sbarramenti delle acque per la produzione di energia in un Paese per lo più “al buio”. Le tante dighe, tra le cose, hanno anche creato ingenti invasi, i quali «hanno permesso inoltre il fiorire di piantagioni estensive, in particolare per la produzione di canna da zucchero».
Messa così sembrerebbe una buona notizia (più energia, più produzione, più Pil) ma lo “sviluppo” così inteso lascia sempre indietro qualcuno, ribadisce Nigrizia, e infatti «alla popolazione locale, cui erano stati promessi nuovi insediamenti dotati dei servizi di base e posti di lavoro, non è arrivato nulla».
L’Oakland Institute aveva già denunciato la situazione nel 2019, con l’inchiesta dal titolo “Come ci hanno ingannato: vivere con la diga Gibe III e le piantagioni di canna da zucchero nel sud-ovest dell’Etiopia” (v. notizia di Nigrizia). «Già allora – dice Nigrizia – i ricercatori avevano raccolto testimonianze preoccupanti. Le popolazioni locali erano state spinte ad abbandonare il loro stile di vita basato sull’allevamento brado per abbracciare l’agricoltura, di pura sussistenza per altro. Ma non avevano ricevuto appezzamenti di terreno sufficientemente fertili e ampi da sfamare le proprie famiglie. Per di più gli sbarramenti sul corso del fiume avevano fermato le alluvioni stagionali che permettevano di coltivare sulle sue rive in terreni fertilizzati dall’humus deposto in abbondanza durante le esondazioni, con tecniche tradizionali ma in modo efficace, tanto da produrre il necessario per il fabbisogno annuale. Scuole, dispensari, pozzi, promessi dal governo in cambio del trasferimento in villaggi lontani dal fiume e dai loro insediamenti tradizionali, si erano materializzati raramente e, nel migliore dei casi, erano gravemente insufficienti a soddisfare i bisogni della popolazione. Il posti di lavoro originati dalla costruzione degli impianti e dalla gestione delle piantagioni, pochi rispetto alle aspettative, erano di fatto stati assegnati a persone provenienti da altre zone del paese».
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