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Libia-Israele-Italia: sussulti dal caos

Libia-Israele-Italia: sussulti dal caos

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 30 del 16/09/2023

Che la Libia barcollasse da tempo non è novità per nessuno. Sono quasi dodici anni che, dall’estromissione di Gheddafi dal potere con la sua uccisione nell’ottobre del 2011, le milizie armate, al soldo dei russi a est e dei turchi a ovest, si contendono i territori, i business e le risorse del Paese. Con tanti appetiti e interessi di altri Paesi e multinazionali che, a seconda di dove tiri il vento degli affari, stanno di qua o di là per portar via petrolio, gas, acqua fossile e quanto di allettante offre quella terra.

Compreso il business dei migranti, che con il Memorandum firmato con l’Italia nel 2017, ha trovato pure una legittimazione. È il “Lybia Gate”: si incassa per permettere ai migranti di attraversare il Mediterraneo, si vanno a riprendere con le motovedette regalate dalla Guardia Costiera Italiana, per rinchiuderli nei “lager degli orrori” e poi si va ancora a fare bancomat (a volte oltre i 1.000 dollari) via telefono dai loro familiari costretti a inviare denaro per liberarli e per permettere loro di tentare un nuovo viaggio. E via, così, di ping pong sulla pelle della povera gente. Youssouf, dalla Giunea Bissau, ci racconta che ha tentato il viaggio cinque volte prima di farcela. Pagandone tre. E ogni volta ributtato come prigioniero nelle case di detenzione dove, a detta dell’Onu, subiscono trattamenti disumani tra cui la negazione dei diritti legali, la deliberata negligenza medica, la tortura fisica e psicologica, le estorsioni e gli abusi sessuali! Il tutto con buona responsabilità del governo italiano complice della vergogna e dell’Europa che considera la Libia e la Tunisia terre di approdo sicure.

Questo caos generalizzato e normalizzato che non riesce a portare alle urne il Paese dopo ripetuti tentativi vive, a volte, alcuni picchi che lo riportano alla ribalta dei riflettori internazionali. È successo in agosto, due volte.

La prima a metà del mese scorso: 27 morti e centinaia di feriti per le tensioni esplose ad Ain Zara, nella zona meridionale di Tripoli tra due delle più potenti e attive fazioni armate della capitale che si contendono il controllo della città e della Libia occidentale: la Brigata 444, affiliata al Ministero della Difesa libico e considerata tra le più fedeli al governo Dbeibah e la Forza Speciale di Deterrenza (al-Raada) che funge da forza di polizia di Tripoli. Il motivo del contenzioso è stato l’arresto del comandante di alto livello della Brigata 444, Mahmoud Hamza, proprio a opera della milizia rivale.

Neanche all’interno del proprio campo di appartenenza si può stare quindi tranquilli quando si vive nella terra di nessuno. Lo scontro infatti è avvenuto per la spartizione di potere interna al campo che sostiene il premier Dbeibah, riconosciuto dalla comunità internazionale ma costretto, per stare a galla, a fare il gioco della Turchia.

La seconda impennata di disordini dentro a un Paese che ormai è difficile definire tale per il processo di “somalizzazione” in corso da lunghi anni, ossia di guerra fratricida interna tra bande rivali, è stata invece pochi giorni più tardi quando sono scoppiate rivolte popolari in diversi parti della Libia occidentale, inizialmente, e poi su tutto il territorio libico.

Stavolta è stata la gente semplice a scendere per le strade e a far esplodere la sua rabbia per aver scoperto le trame nascoste di accordi tra Libia e Israele, i cui ministri degli Esteri si sono incontrati recentemente a Roma. Strade bloccate, pneumatici bruciati e l’abitazione del primo ministro Dbeibah attaccata per manifestare la collera verso i negoziati a suon di quattrini e interessi con Israele, da sempre il nemico numero uno. I popoli libici, ne parliamo giustamente al plurale, divisi su quasi tutto, trovano almeno un collante che li tiene insieme nella religione islamica e nella difesa della causa del popolo palestinese che per oltre 40 anni Gheddafi aveva sostenuto con grande convinzione. Un sentimento e una lotta che da tanti anni i libici portano avanti in nome della solidarietà con un popolo martirizzato, con cui evidentemente spesso si identificano. È per queste ragioni che Tripoli e Tel Aviv non avevano più rapporti diplomatici dal 1965.

Gli accordi, che già avanzavano da mesi, dovevano restare segreti. Ma quando la soffiata sull’incontro di Roma è partita, ha dovuto ammetterlo anche Tajani, ministro degli Esteri italiano, accusato dai clan libici di aver organizzato l’evento. Le negoziazioni erano orchestrate dagli americani che cercano di ripristinare la terra bruciata attorno a Israele da parte di tanti vicini attraverso “gli Accordi di Abramo”, cioè relazioni normalizzate di Tel Aviv con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e perfino il Sudan prima che scoppiasse il conflitto interno a metà aprile di quest’anno. Accordi che avevano lo scopo di riattivare transazioni commerciali e finanziarie, passaggio di civili e relazioni diplomatiche ma che in sostanza servivano agli USA per recuperare una sfera di influenza su Mediterraneo, Nord Africa e un Medio Oriente sempre più preda alle incursioni russe (con il braccio armato dei contractor Wagner), turche, cinesi e delle monarchie del Golfo. Manovra subdola che serve pure all’Italia per riprendersi il controllo dei campi petroliferi. Becere geopolitiche per il controllo e l’influenza sui territori senza considerare quanto ribolle nel sangue della gente.

Alla diffusione della notizia il premier Dbeibah, che, secondo indiscrezioni, nel gennaio scorso aveva incontrato a Tripoli il direttore della Cia, ha giocato sporco: ha scaricato la sua ministra degli Esteri addossandole ogni responsabilità e ha ribadito che il popolo libico sostiene il “dossier palestinese” e non ha nessuna intenzione di normalizzare le sue relazioni con Israele. In soldoni prova a tenere il piede in due scarpe: una è quella di assicurarsi l’appoggio finanziario e politico americano, l’altra è quella di non provocare le corde più profonde del suo popolo che, unito dal sentimento antiisraeliano, lo può far saltare.

La polveriera Libia rischia dunque di scoppiare e a darne il preavviso sono i picchi di partenze dei migranti che hanno la loro escalation quando l’instabilità cresce. Prima gli imbarchi erano stati momentaneamente spostati in Tunisia ma nelle ultime settimane sono tornati a riaffacciarsi in Libia. A seconda del momento storico e della convenienza economica le partenze cambiano posizione. E la “carne di Cristo”, come papa Francesco ama chiamare i migranti, sono sempre più merce di ricatto. Soldi in cambio di trattenimento dei migranti. Ma se i primi non arrivano ecco il via libera a imbarcazioni e navi. Come nel giugno scorso quando il generale Haftar capo indiscusso della Cirenaica, all’est della Libia, dopo colloqui a Roma con la premier Meloni ai primi di maggio, ha voluto dare un segnale all’Europa lasciando salpare quella nave con oltre 600 persone che è affondata al largo di Philos, sulle coste greche.

Precisi segnali politici ed economici. Che importa a loro se li lanciano lasciando affondare oltre 2.000 persone, da inizio anno, nel Mediterraneo?

Filippo Ivardi Ganapini è missionario comboniano

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