Più forte ti scriverò. Caro Satnam...
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 25 del 06/07/2024
Caro Satnam, ti avranno chiamato “L’indiano”, una faccia uguale a cento altre. Eri solo braccia. Già, non chiamano così quelli che lavorano i campi? I “braccianti”, appunto. Lo pensava anche “quello”, il “paron” dell’Italia di allora, che mandò dal mio Veneto la gente nell'Agropontino. Servivano braccia per bonificare la terra. E nel linguaggio dei padroni, i poveri sono solo bocche da sfamare, e l’unico modo per esistere, per essere sfruttati è diventare braccia. Anche nelle guerre servono braccia, per “imbracciare” fucili, sparare, uccidere.
Ma le braccia non servono anche per altro? Abbracciare, ad esempio. Dare una carezza, raccogliersi i capelli, strofinarsi gli occhi per guardare lontano. Chiunque lascia la propria terra porta la mano alla fronte e scruta l’orizzonte. Anche quelli che partirono da qui, per arrivare dove ora tu sei. Poi si perde la memoria. Si dimentica chi siamo stati. Gli abbracci, le carezze, l’orizzonte. Si diventa “paroni” e si pensa solo alla “roba”. Ma c’è roba da tenere, e roba da buttare. I “schei” sono da tenere. Ingrandire il proprio capannone, il proprio campo. Senza regole, senza legalità, senza diritti. La roba da buttare è tutto il resto. Anche gli altri, la gente che lavora, i “foresti”, gli “indiani” sono roba. Siete accucciati nei nostri campi ma è come foste nelle miniere di cui parla il Verga nell’Ottocento. Tu come “Rosso Malpelo”, maledetto, bandito dalla terra.
Ti hanno buttato giù dal furgone. Senza un braccio. Insieme a tua moglie Soni, che gridava tutta la sua disperazione. Il braccio l’hanno messo in una cassetta della frutta: come fragole, come pomodori. Eri roba da discarica. Lui non vedeva il tuo portamento regale. Non sapeva che le braccia servivano per pregare. Che un Sikh come te si sente vicino al creatore ogni momento, che lavora “senza imbrogli e senza truffe”, come è scritto nei vostri libri sacri. E condivide una parte del suo guadagno con qualcuno. Ma lui, il padrone, non crede che ci sia un’anima in tutte le cose. Voi Sikh non credete nelle caste. Siamo noi che le abbiamo. Qui. I padroni e gli schiavi.
Eppure, anche noi da queste parti,avevamo un Dio. E dovevamo ricordarci ogni giorno che eravamo stati stranieri in terra d’Egitto. E poi venne un altro a dirci «Beati i miti perché erediteranno la terra». Non ricordiamo più da dove siamo venuti, e abbiamo scambiato la promessa con la roba. Mentre morivi dissanguato, non solo lui, il “padrone”, ma anche noi tacevamo. Tacevano quelli che fanno le leggi, quelli che inventano il caporalato, quelli che si mettono d”accordo con le mafie; quelli che si scandalizzano del braccio buttato nell’immondizia, ma non della propria indifferenza.
C’era un crocifisso in Bosnia durante la guerra. Era senza un braccio. Come te. Eppure era il più vero di tutti. Crocefisso ogni volta. Ed è quello che dovrebbe esserci in ogni chiesa. Ma forse tra i padroni, come tra i borghesi devoti, nessuno ti raccoglierebbe per la strada, perché non servi nemmeno per essere appeso a una croce…
Una poesia (G. Ungaretti, “In memoria”, da L’Allegria, 1931) parla di un certo Moammed Sceab, discendente di emiri, di nomadi, che non aveva più patria. Solo il poeta e la padrona dell’albergo lo accompagnarono nel camposanto del sobborgo d’Ivry. E dice alla fine : E forse io solo / so ancora / che visse.
Ma noi sappiamo invece che sei vissuto. Che eri figlio di principi e avevi un cuore puro, che credevi in un mondo senza imbrogli. E senza caste. E che ti chiamavi Satnam Sing. E avevi due braccia per rifare la terra.
*Immagine presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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