
Patriarcato e modello di sviluppo neoliberista imperante
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 31 del 14/09/2024
«Non esiste la società. Esistono solo gli individui»
Questa celebre e profetica frase di Margaret Thatcher descrive perfettamente il momento storico che viviamo, in cui la dimensione collettiva è venuta sempre meno, proiettandoci in un’apparente dimensione di autosufficienza che ci impedisce non solo di creare solidarietà con gli altri e le altre, ma persino di sentirne il bisogno. Ci sentiamo sempre più soli, e lo siamo.
Magari è una leggenda, ma estremamente verosimile, quella che racconta di come la Thatcher, in una delle sue prime riunioni come leader dei Tory britannici, nel 1975, tirò fuori dalla borsetta una copia di un saggio economico-politico e lo poggiò con veemenza sul tavolo dicendo: «Questo è tutto quello in cui crediamo».
Quel saggio era La Società libera1 , scritto nel 1960 da Friedrich Von Hayek, economista austriaco e Premio Nobel per l’Economia nel 1974, che da quel momento divenne il pensatore di riferimento di un’ideologia politica e teoria economica degli anni Ottanta, che definì e tuttora definisce gli sviluppi del capitalismo: il neoliberismo.
Secondo Von Hayek, la società si regge solo e unicamente sull’azione individuale. Monadi che agiscono perseguendo un proprio fine, una società che si mantiene assieme secondo un ordine che, a parere di Von Hayek, non è il risultato di una progettazione umana, ma si autogenera spontaneamente, un ordine in cui ognuno è artefice del proprio destino, e quindi anche del proprio fallimento.
Il neoliberismo considera la competizione la caratteristica distintiva delle relazioni umane. Ridefinisce i cittadini e le cittadine come consumatori e consumatrici, le cui scelte democratiche si esercitano tramite l’acquisto e la vendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza.
In questo scenario il ruolo dello Stato, che esercita un controllo dell’alto, è assolutamente superfluo perché quest’ordine è regolato dalla proprietà privata che, oltre a essere il fondamento della civiltà, è anche una sorta di argine morale, «la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l’assenza di conflitti», secondo Von Hayek.
Disprezzo anche per la democrazia rappresentativa, considerata un ostacolo alla realizzazione del singolo, se non proprio antitetica all’esercizio della proprietà privata. E infatti l’economista fu, al tempo, un sostenitore della dittatura di Pinochet: «Nell’era moderna ci sono stati molti esempi di governi autoritari in cui la libertà personale era più al sicuro che nella democrazia».
La conseguenza della diffusione delle idee di Hayek, applicate dai suoi seguaci, dalla Thatcher a Reagan, fu un grande risanamento dei conti degli Stati, con l’effetto collaterale della distruzione del welfare, delle classi lavoratrici, dei sindacati e dell’aumento delle disuguaglianze sociali.
Quindi privatizzazioni, deregolamentazione e tagli alla spesa pubblica sul versante economico e conservatorismo sul piano politico, una commistione di due aspetti che ha creato una società profondamente divisa e classista, dove tutti sembrano accettare che l’1% più ricco del mondo2 detenga più del doppio della ricchezza netta posseduta da quasi 8 miliardi di persone.
Sembra incredibile che l’ideologia neoliberista del primato dell’individuo e del mercato sia conciliabile con lo stato di crisi permanente in cui viviamo oggi ma in realtà vi è una correlazione stretta, che ha ben spiegato Naomi Klein nel suo saggio del 2007 Schock economy: la crisi che segue un disastro è la scusa ideale per imporre politiche impopolari che avvantaggiano pochi a discapito di molti, una visione disumana, ma che molti giustificano nel nome dell’economia della crescita.
Il Neoliberismo è quindi conservatorismo sul piano politico, e il conservatorismo è la linfa vitale del capitalismo che si fonda su logiche patriarcali.
Ovviamente oggi sappiamo bene che il patriarcato precede cronologicamente la nascita del capitalismo, non vi era l’eguaglianza tra uomini e donne nella Grecia classica, nella Roma imperiale, durante il feudalesimo o il Risorgimento: il capitalismo non inventò il patriarcato.
Secondo il lavoro di Engels3 l’origine dell’oppressione delle donne risiede nella nascita della proprietà privata della terra e del bestiame. L’analisi di Engels indica le brutali disuguaglianze causate dal capitalismo, dove ogni “miracolo di civiltà” è costruito sullo schiacciamento di gran parte di questa stessa società, di coloro che non hanno nulla, i proletari, con particolare riferimento alle donne lavoratrici, che sono la maggioranza nei laboratori tessili, che lavorano 10 o 12 ore al giorno come i loro compagni, ma ricevono salari più bassi, che in tempi di crisi sono le prime ad essere licenziate, e che quando tornano a casa devono occuparsi della cucina, delle pulizie e della cura dei bambini. E anche se ancora non troviamo qui una teorizzazione sul ruolo delle donne della classe operaia nella società capitalista, Engels sottolinea ripetutamente un fenomeno sociale che colpisce in particolare le donne. L’ordine sociale capitalista, afferma, disintegra la famiglia della classe operaia, rendendo impossibili le sue condizioni di esistenza.
Il capitalismo trasforma le relazioni patriarcali, così come l’esistenza previa del patriarcato determina importanti aspetti del sistema capitalista. Entrambi i sistemi sono classisti e probabilmente il patriarcato è stata la prima forma di classismo, molto ben sfruttata secoli dopo dal capitalismo, fino a essere così strettamente correlati che difficilmente si può concepire o spiegare un sistema senza prendere in considerazione l’altro, sono due sistemi indipendenti che si rafforzano e si determinano l’un l’altro.
Infatti il patriarcato non è una questione fondamentalmente ideologica o solo un elemento in più della sovrastruttura capitalista: esso è un sistema di sfruttamento delle donne da parte degli uomini, che si appropriano dei lavori e dei servizi prodotti dalle donne, e per questo costituisce inoltre un elemento del modo di produzione e ha manifestato storicamente un’enorme capacità di adattarsi allo sviluppo economico e nella tappa del capitalismo stabilisce un’alleanza molto vantaggiosa per entrambi i sistemi.
Parlare della connessione tra neoliberismo e patriarcato significa parlare di violenza.
La violenza è un dato sistemico che attraversa tutti gli ambiti della vita delle donne.
Non solo violenza maschile contro le donne, di cui i femminicidi rappresentano la punta di un iceberg, ma violenza economica, sia che si parli di lavoro produttivo, riproduttivo o di cura, anche perché la mancanza di indipendenza o la dipendenza economica rappresentano il maggior elemento di ricattabilità nel tentativo di fuoriuscita dai percorsi di violenza.
Le conseguenze della privatizzazione totale dei servizi e della vita prodotte dal neoliberismo, oltre a creare come detto una società profondamente ingiusta e basata sulla classe, maggiormente pesano sulle donne soprattutto per l’aspetto che riguarda la privatizzazione del carico sociale.
Stiamo vivendo una crisi sistemica della società, dell’economia, dell’ecologia, della politica e della “cura”. Una crisi generale dell’intera organizzazione sociale, in fondo una crisi del capitalismo, e in particolare di quello in cui viviamo oggi: globalizzato, finanziario, neoliberista.
Che il capitalismo generi periodicamente queste crisi non è casuale. Non solo questo sistema sfrutta il lavoro salariato, ma si scatena anche contro la natura, i beni pubblici e il lavoro non pagato della riproduzione sociale.
Guidato dalla ricerca del profitto, il capitale si espande egoisticamente e senza pagare il prezzo del proprio sviluppo, a meno che non sia obbligato a farlo. Impostato per degradare la natura, strumentalizzare i beni pubblici e imporre un lavoro di cura non retribuito, destabilizza periodicamente le condizioni della sua e della nostra sopravvivenza.
Guardando oltre alla connotazione biologica della riproduzione, gravidanza, parto, allattamento, esiste una massa enorme di vero e proprio lavoro completamente sottovalutato o svalutato: il lavoro domestico, di cura, di formazione ed educazione, di appoggio fisico e psichico, affettivo e relazionale, lavoro invisibilizzato, quando è gratuito, e sfruttato, quando viene contrattualizzato.
Il Capitale, con la sua innata capacità di estrarre valore economico da tutte diverse connotazioni del lavoro e in nome della “libertà” delle donne, introduce una flessibilità tale che non esiste più alcuna distinzione tra tempi di vita e di lavoro.
La crisi economica e le politiche neoliberiste messe in atto dall’attuale Unione Europea a guida Ursula von der Leyen, rappresentazione insieme ad Angela Merkel, Margaret Thatcher o Christine Lagarde, di un movimento reazionario, tossico per la quarta ondata femminista, conosciuto come femminismo d’élite o “self-empowerment” – che si basa sulla realizzazione individuale di una singola donna, l’emblema dell’individualismo, cioè, la caratteristica tipica del capitalismo e della società monade descritta da Von Hayek e non sulla ricerca della parità collettiva4 – non hanno solo accresciuto le disuguaglianze, intensificato lo sfruttamento e privatizzato il welfare, ma hanno aggravato le discriminazioni sociali, culturali, sessuali e di genere contribuendo a cristallizzare ruoli sociali basati sulla divisione sessuale del lavoro.
La cultura del consumo neoliberista è arrivata al punto di travestire da “filosofia del libero mercato” alcune idee politiche femministe, facendo un gran favore al suo più stretto alleato, il patriarcato appunto. Espressioni chiave del femminismo di seconda ondata come “libera scelta” vengono manipolate e banalizzate dai media e dalla cultura popolare con lo scopo di incoraggiare l’individualismo femminile.
L’entrata delle donne nel mercato del lavoro, lungi dall’aver liberato “tempo per sé”, le costringe a un doppio carico di lavoro e le trasforma in veri e propri ammortizzatori sociali di un welfare universale in via d’estinzione, e il desiderio e la necessità di autonomia e indipendenza economica delle donne si infrangono contro una realtà fatta di salari più bassi5 , maggiore precarietà, maggiore ricattabilità (dimissioni in bianco, part-time involontario, molestie sessuali, ecc.), nessun riconoscimento economico e sociale del lavoro riproduttivo e di cura, aumento dell’età pensionabile.
Il modello di produzione neoliberista utilizza le donne, al pari dei e delle migranti, come dispositivo di abbassamento delle tutele e dei diritti per tutte e tutti.
Restituire valore al prendersi cura è la premessa per un processo di trasformazione. Significa investire di più nei servizi socio-sanitari, riconoscere il valore della cura prestata e mettere al centro la donna. Significa recuperare il valore del “noi” come soggetto plurale che non si traduca nell’annullamento della conflittualità sociale, ma che sottolinei la necessità di una solidarietà inclusiva capace di trasformare l’esistente.
Note:
1. La società libera - Wikipedia
2. La disuguaglianza non conosce crisi - Oxfam Italia
3. Il suo libro L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato fu pubblicato per la prima volta nel 1884 e da allora è stato considerato un’opera chiave per il femminismo socialista
4. Concetto espresso con chiarezza dall’attivista femminista Jessa Crispin: «Se questo potere è solo per ottenere soldi e posizione, per declinare al femminile il capitalismo maschile, allora di femminismo non ha nulla, e non cambierà nulla» (https://27esimaora.corriere.it/17_marzo_07/contro-manifesto-usa-no-femminismo-d-elite-solo-tshirt-poco-impegno-a9f432ec-0388-11e7-abb5-4486feee70af.shtml). «La soluzione non è solo quella di mettere più donne nelle roccaforti del potere. Essendo state a lungo escluse dalla sfera pubblica, abbiamo dovuto lottare con le unghie e con i denti per essere ascoltate su argomenti regolarmente liquidati come “privati”. Spesso, tuttavia, le élite progressiste si sono impossessate delle nostre affermazioni manipolandole in senso favorevole al capitale. Siamo invitate a votare per le donne in politica e a celebrare la loro ascesa al potere, come se questo potesse influire positivamente sulla nostra liberazione. Ma per noi non c’è nulla di femminista in donne che facilitano il bombardamento di altri Paesi e sostengono gli interventi neo-coloniali in nome dell’umanitarismo, pur rimanendo in silenzio sui genocidi perpetrati dai loro stessi governi. Le donne sono le prime vittime della guerra e dell’occupazione imperiale in tutto il mondo. Affrontano sistematiche vessazioni, l’omicidio e la mutilazione dei loro cari, la distruzione delle infrastrutture che hanno permesso loro di provvedere a se stesse e alle loro famiglie. Siamo solidali con loro. A coloro che pretendono di giustificare i loro scopi guerrafondai sostenendo di liberare donne di diversi gruppi etnici e sociali, diciamo: “Non in nostro nome”». Dalla «Decima tesi: Il capitalismo è incompatibile con una democrazia e una pace reali. La nostra risposta è il femminismo internazionalista», da Feminism for the 99 Percent: a Manifesto, da “The New Left Review” n. 114, Cinzia Arruzza, Nancy Fraser, Tithi Bhattacharya, novembre-dicembre 2018, pubblicato da Laterza nella traduzione di Alberto Prunetti.
5. La Posizione dell’Italia nel Gender Global Gap e nella UE: il Gender Global Gap, su 149 Paesi, posiziona l’Italia in 70.ma posizione (eravamo in 82.ma posizione nel 2017). Su questo pesa come un macigno la condizione delle donne nella partecipazione alla vita economica (118.ma posizione) e nella Salute (116.ma posizione). E quando il ranking si concentra sull’Europa occidentale (20 Paesi), allora risulta chiaro che siamo fanalino di coda e che il nostro cammino per l’uguaglianza di genere è molto lontano e difficile da portare a termine. Nella disuguaglianza complessiva siamo al 17.mo posto su 20 (dopo di noi solo Grecia, Malta e Cipro); 16.mo posto in Educazione; 17.mo in salute e 14.mo in politica. Gravissimo è il dato sulla partecipazione alla vita economica: siamo all’ultimo posto. Istat, Livelli di istruzione della popolazione e ritorni occupazionali: i principali indicatori anno 2017, pubblicato 2018. Istat, BES - Il benessere equo e sostenibile in Italia, 2018.
Elena Mazzoni è ambientalista e femminista. Responsabile nazionale ambiente di Rifondazione Comunista. Fa parte del coordinamento nazionale della Rete dei Numeri Pari.
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