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Femminismo e politica dei beni comuni ambientali

Femminismo e politica dei beni comuni ambientali

Tratto da: Adista Documenti n° 37 del 26/10/2024

«Riconosciamo che il raggiungimento del pieno potenziale umano e dello sviluppo sostenibile non è possibile se alle donne e alle ragazze vengono negati pieni diritti umani e opportunità. Una crescita economica sostenibile, inclusiva ed equa e uno sviluppo sostenibile possono essere realizzati solo quando tutte le donne hanno i loro pieni diritti umani rispettati, protetti e realizzati»1 . A quasi quarant’anni dalla Conferenza di Pechino e dal suo Piano d’azione per le donne, i Governi nelle Nazioni Unite, nel Vertice del Futuro conclusosi alla fine di settembre scorso a New York, hanno ripetuto questi stessi impegni, con la stessa evidenza, e la stesse urgenza2 . Ci confrontiamo, in effetti, con un’economia sempre più insostenibile. Acqua, aria, suoli, foreste e tutto ciò che è indispensabile alla vita risulta ipersfruttato, commercializzato, estratto del proprio valore con crescente, violenta, incuria. E quanto lo sfruttamento capitalista di donne e natura sia la radice patriarcale della crisi ecologica, sociale ed economica attuale è sempre più evidente.

Papa Francesco ha sottolineato la vocazione delle donne a essere «artigiane» e «collaboratrici del Creatore a servizio della vita, del bene comune, della pace»: «Con la sua connaturale propensione a “prendersi cura” – ha aggiunto in un recente discorso – la donna sa in modo eminente essere, per la società, “intelligenza e cuore che ama e che unisce”, mettendo amore dove non c’è amore, umanità dove l’essere umano fatica a ritrovare se stesso»3 . Eppure il pontefice non ha mai portato a pieno compimento questa intuizione. Ha riletto l’antropocentrismo “situandolo” in armonia con gli altri esseri viventi4 , ha più volte denunciato che il modello economico estrattivo «non si prende cura della casa comune»5 . Quando, però, ha immaginato “l’economia di Francesco” come «economia di cura, intesa come “prendersi cura” delle persone e della natura, offrendo prodotti e servizi per la crescita del bene comune»6 , ha “neutralizzato” la sua messa a terra come se pari responsabilità e opportunità fossero in capo a donne e uomini indistintamente. Come se quell’intuizione preziosa della causalità inscindibile tra beni comuni, cura, donna e buona economia, potesse svanire senza conseguenze, con un colpo di turibolo.

L’economia dei beni comuni è donna

Grazie a Dio, che è probabilmente più donna di tutti i suoi pontefici, studiose come Elinor Ostrom e Silvia Federici hanno dimostrato con ampiezza di formule ed esempi, la prima, che l’economia dei beni comuni è più florida del capitalismo estrattivo; la seconda, che l’ecofemminismo può ripoliticizzare l’economia riconducendola alla radice etimologica di “oikos-nomia”: regole condivise per una buona gestione della casa comune. Ostrom ha vinto nel 2009, prima donna, il premio Nobel per l'Economia, per aver dimostrato come la gestione collettiva, condivisa e non privatizzata dei beni comuni sia più redditizia in termini economici, non soltanto sociali e ambientali7 . In controtendenza rispetto al turboliberismo contemporaneo, Ostrom ha ragionato, con una meticolosa ricerca sul campo, di come convenisse ricondurre la “mano invisibile” del mercato a istituzioni collettive e policentriche. Il suo successo, così, ha permesso un'irruzione femminista negli spazi maschili della scienza politica e dell'economia ma, da solo, non è riuscito a ripoliticizzare il dibattito su quali istituzioni, o quali cambiamenti nelle istituzioni esistenti, fossero necessari per una nuova economia dei beni comuni. Soprattutto, non ha innescato un'analisi critica di come il potere, maschile e femminile, operi nella gestione dei beni comuni.

Ecofemminismo incarnato

Federici, qualche anno dopo, ha denunciato le preoccupazioni di quella che definiamo “ecologia politica femminista” rispetto a una considerazione disincarnata dei beni comuni, un’analisi che ignora un potere che opera attraverso le disparità che produce non solo tra i generi, ma anche alle intersezioni con altri sistemi socioeconomici e culturali: pensiamo alla provenienza geografica, l’età, la classe, l’abilità e le caste; un potere di genere incarnato nei processi materiali, ecologici, tecnologici e politicoeconomici, che si riflettono nelle azioni e nelle esperienze dele persone nell'ambiente. Chandra T. Mohanty, più di recente, ha indicato come «decolonizzare» lo stesso femminismo per far emergere «ciò che è invisibile, poco teorizzato e lasciato fuori nella produzione di conoscenza sulla globalizzazione»8 . Nel raccontare la deriva della globalizzazione siamo un po’ tutte colpevoli di aver schiacciato la nostra analisi su una donna del Sud del mondo ridotta a vittima di tratta, domestica migrante, manodopera a basso costo. Abbiamo contribuito, così, paradossalmente, ad alimentare il punto di vista capitalista e occidentalizzato come l'unico futuro vincente per l'economia globale. Federici ci fa ricordare, invece, che l'accumulazione capitalista dipende strutturalmente, e a tutte le latitudini, dall’appropriazione di immense quantità di lavoro di cura e beni comuni, che nessun padrone retribuisce e riproduce, ma sui quali tutti contano per accumulare i propri profitti.

Come soggetti del lavoro riproduttivo, storicamente e oggi, le donne hanno fatto più affidamento sull'accesso alle risorse naturali comunitarie rispetto agli uomini, sono state più penalizzate dalla loro privatizzazione e sono maggiormente impegnate nella loro difesa. Sin dalla prima fase dello sviluppo capitalista le donne erano in prima linea nella lotta contro le recinzioni delle terre, sia in Inghilterra sia nel “Nuovo Mondo”, ed erano strenue difensore delle culture comunitarie che la colonizzazione europea ha tentato di azzerare. Oggi le troviamo alla testa di tutti i conflitti climatici, contro le grandi opere inutili, l’estrattivismo, ma anche nell’economia cooperativa, circolare, solidale e nell’agricoltura contadina, che assicura più del 70% del cibo al mondo e che è ancora, a tutte le latitudini, sostanzialmente femminile e collettiva. Così ci riappropriamo della nostra forza produttiva e riproduttiva, e di un baricentro nella comunità solidale, che riconosce il valore globale del proprio agire.

No al modello cyber-industriale

Come non sprofondare nella prigione culturale della casa occidentale, superaccessoriata e isolata, energivora e assediata, con ruoli definiti o sconfessati dalle gerarchie dei capitalismi di Stato e di mercato che in questa fase storica si affrontano in una maschia sfida di sistema? La risposta: non avendo paura di venire riprecipitate nel modello patriarcale della donna “angelo del focolare” se indichiamo nel modello cyber-industriale – di primato dell’uomo sulla donna e sui beni comuni – un orizzonte di vita non desiderabile. Il funzionamento della società dipende ancora in larga parte dai servizi ecosistemici che ci assicura la natura e dal lavoro di cura femminile che, se quantificato, vale oltre due terzi dell’economia reale. Abbiamo valore e potere sufficienti con cui rigenerare un mondo vivente e vivibile.

Quello ecofemminista non è un partito ma una possibilità concreta: si traduce, tutti i giorni, in cooperazione, in tessuti relazionali, nella valorizzazione del benessere e dell’uso collettivo rispetto alla mercificazione, l’accumulazione e la speculazione. Sono politiche e pratiche pubbliche, non privatistiche, di cura, come risposta all’incuria e all’abbandono. Una donna al potere non fa la differenza, ma tante sì. Claudia Goldin ha vinto il Nobel per l’Economia, terza studiosa fino a oggi, dimostrando che più donne nei Parlamenti nazionali portano a politiche più incisive sui cambiamenti climatici; più donne nella gestione delle risorse naturali migliorano la governance ambientale; più donne nei consigli di amministrazione portano a più investimenti in innovazione. Senza donne l’economia non cambierà, lo spergiurano le Nazioni Unite e lo spiega Goldin con un dato poco noto: gli imprenditori uomini sono, nel mondo, tre volte di più rispetto alle imprenditrici. Papa Francesco, riflettici anche tu.

Note

1. “Pact for the future” https://www.un.org/sites/un2.un.org/files/sotf-pact_for_the_future_adopted.pdf

2. “Beijing Declaration and Platform for Action”, «to accelerating our efforts to achieve gender equality, women’s participation and the empowerment of all women and girls in the Fourth World Conference on Women», Beijing, 4–15 September 1995

3. https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2024/03/07/0192/00402.html

4. Laudate Deum, 67

5. https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20200826 _udienza-generale.html

6. https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2022-10/papa-francesco-uniapac-dirigenti-cristiani-nuova-economia-patto.html

7. https://www.actu-environnement.com/media/pdf/ostrom_1990.pdf

8. Mohanty, Chandra Talpade. Feminism without Borders: Decolonizing Theory, Practicing Solidarity, Duke University Press, 2003, https://doi.org/10.2307/j.ctv11smp7t

Monica Di Sisto è giornalista di Askanews, esperta di commercio internazionale, da oltre 20 anni fa advocacy istituzionale sui temi della giustizia economica e ambientale. Ha insegnato Modelli di sviluppo economico alla Pontificia Università Gregoriana e Comunicazione e Advocacy del Terzo settore al Master di Comunicazione istituzionale dell'Università Luiss Guido Carli di Roma. È la responsabile dell’Osservatorio italiano su Commercio e Clima, Fairwatch.

*Foto presa da Unpalsh, immagine originale e licenza 

 

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