
Le emissioni dell’economia malata
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 41 del 30/11/2024
«Gli impatti del cambiamento climatico stanno diventando sempre più drammatici, eppure non vediamo ancora un segno che la combustione di combustibili fossili abbia raggiunto il picco»: lo ha detto Pierre Friedlingstein del Global Systems Institute dell’università di Exeter, tra i coordinatori del rapporto annuale Global Carbon Budget 2024, che traccia le emissioni globali derivanti dai combustibili fossili ed è stato pubblicato nell’imminenza della conferenza delle Parti Onu per il clima di Baku (Cop29). Oggi le emissioni dei combustibili fossili costituiscono circa il 90% delle emissioni globali complessive, mentre il restante 10% è riconducibile all’uso del suolo.
Le emissioni legate ai combustibili fossili, secondo il rapporto raggiungeranno un nuovo record assoluto con 37,4 Giga tonnellate di CO2 a fine 2024, con un aumento di 0,4 Giga tonnellate rispetto al 2023. Le emissioni di carbonio legate ai combustibili fossili, che attualmente costituiscono circa il 90% delle emissioni globali totali, aumentano, anche se più limitatamente, per il carbone (0,2%), il petrolio (0,9%), ma esplodono per il gas (2,4%).
A seguito del conflitto russoucraino tutti gli Stati dell’Unione Europea hanno iniziato a diversificare la provenienza delle loro importazioni di combustibili fossili, in particolare di gas: si lavora su grandi hub mediterranei per convogliare risorse dall’Algeria al Congo, e sull’importazione di gas liquido (Gnl) dagli Stati Uniti che, sia per come è prodotto, sia per l’impatto dei trasporti e degli impianti di rigassificazione è un non senso dal punto di vista ecologico. In un arco di tempo di vent’anni, infatti, il potere climalterante del metano è 85 volte superiore a quello dell’anidride carbonica, ma l’impronta di carbonio del gas che giunge ai rigassificatori è quasi quattro volte superiore al gas trasportato tramite condotta.
«Il tempo per agire sta per scadere», è il monito dello scienziato all’indirizzo della Cop29 Clima di Baku, dove la premier italiana ha nuovamente definito il gas come un carburante necessario alla transizione ecologica, mentre Friedlingstein chiede «tagli rapidi e profondi alle emissioni di combustibili fossili per darci la possibilità di rimanere ben al di sotto dei 2°C di riscaldamento rispetto ai livelli preindustriali». Anche perché ai ritmi di emissioni di oggi, il budget di carbonio rimanente per contenere il riscaldamento globale sotto la soglia di 1,5°C con una probabilità del 50% sarà esaurito tra 6 anni, nel 2030.
Una cosa interessante segnata in questo stesso rapporto è che, se una riduzione nel ritmo di produzione di emissioni climalterante c’è stata negli ultimi anni, non è stata per specifiche politiche di decarbonizzazione concordate a livello globale, ma per «una crescita economica globale nell’ultimo decennio». È possibile continuare a crescere e decarbonizzaare l’economia, fenomeno tecnicamente descritto come “disaccoppiamento”? Per molto tempo si è stati convinti di si, ma dopo il Covid e la crisi geopolitica attuale, gli esperti climatici delle Nazioni Unite non ne sono più sicuri: la “ripresa” post-pandemica ha portato, infatti, alla riattivazione di molte centrali a carbone precedentemente in via di dismissione, ma, soprattutto, molti Paesi che sembrano avere i risultati di riduzione delle emissioni più importanti sono quelli che hanno spostato la produzione di beni più inquinanti fuori dai propri confini, non risolvendo, così, il problema del pianeta nel suo complesso.
L’Italia è stata una misconosciuta pioniera degli studi sui limiti della crescita: Aurelio Peccei, dopo aver lavorato nel management Fiat ed essere stato amministratore delegato della Olivetti, con altri intellettuali a cavallo tra industria e accademia, creò nel 1968 il "Club di Roma" per studiare e orientare la traiettoria di sviluppo del pianeta in modo fattivo. All'inizio l'attenzione del Club non si concentrò sui limiti del sistema naturale. Il documento intitolato "Il dilemma dell'Umanità” del 1970 mostra che la principale preoccupazione del Club in quel momento era di trovare metodi pratici per migliorare le condizioni di vita degli esseri umani, in particolare riducendo le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza. Ma i membri del Club giunsero rapidamente alla consapevolezza che, in un mondo finito e definito dalla sa dimensione materiale, dovessero quantificare i limiti delle risorse mondiali per essere in grado di agire in relazione alle loro preoccupazioni. Nel 1972 viene pubblicato il rapporto che letteralmente si intitola “I limiti della crescita” che viene tradotto in italiano "i limiti dello sviluppo" per la religiosa paura che da sempre nel nostro Paese provoca ogni ragionamento teso a modellare il mercato sulle esigenze dell’umanità, e non viceversa.
Papa Francesco, in un’udienza generale dopo la pandemia, aveva chiaramente prefigurato il momento presente: «Il Covid ci ha messo tutti in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali. O usciamo migliori, o usciamo peggiori – è stata l’ammonizione del pontefice –. Questa è la nostra opzione. Dopo la crisi, continueremo con questo sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura dell’ambiente, del creato, della casa comune? Pensiamoci. Possano le comunità cristiane del ventunesimo secolo recuperare questa realtà: la cura del creato e la giustizia sociale: vanno insieme». Andando, però, a rintracciare le cause profonde della crisi in corso, papa Francesco era stato abbastanza esplicito: «Questi sintomi di disuguaglianza rivelano una malattia sociale; è un virus che viene da un’economia malata. E dobbiamo dirlo semplicemente: l’economia è malata. Si è ammalata».
La scelta dell’inazione politica sul clima, infatti, è casuale? Assolutamente no: c’è da chiedersi (e da rispondersi) quanto le partecipate nazionali e i loro interessi influiscano sulle scelte della premier italiana se diamo credito a Selwin Hart, consigliere speciale del segretario generale dell'ONU Antonio Guterres per il cambiamento climatico. In un’intervista concessa al Guardian l’esperto ha accusato l'industria dei combustibili fossili di essere responsabili di «una massiccia campagna di disinformazione» per rallentare il passaggio a un'economia verde. Secondo Hart, prevale la narrativa promossa dall'industria fossile secondo cui «l’azione per il clima è troppo difficile e troppo costosa», perché, in realtà, esse «macinano profitti grazie all'alto prezzo del petrolio e del gas, e continuando a ricevere sussidi governativi nonostante l'evidente danno che queste attività causano all'ambiente».
La buona notizia, pure sottolineata da Hart è che, nonostante questa massiccia pressione, il desiderio popolare di una rapida transizione energetica è forte: un sondaggio ha rilevato che il 72% delle persone desidera una “rapida transizione” verso energie rinnovabili, inclusi i cittadini di Paesi che producono ancora petrolio, gas e carbone. Il nostro senso comune, l’istinto per la sopravvivenza, il lavoro incessante di controinformazione e pressione di tante e tanti che non si rassegnano a una agonia collettiva e ampiamente annunciata, ci aiutano a resistere alla propaganda fossile. Dobbiamo pretendere, però, che anche le nostre istituzioni siano all’altezza di questa impresa vitale: curare l’economia per salvare il pianeta.
Monica Di Sisto è giornalista di Askanews, esperta di commercio internazionale, da oltre 20 anni fa advocacy istituzionale sui temi della giustizia economica e ambientale. Ha insegnato Modelli di sviluppo economico alla Pontificia Università Gregoriana e Comunicazione e Advocacy del Terzo settore al Master di Comunicazione istituzionale dell'Università Luiss Guido Carli di Roma. È la responsabile dell’Osservatorio italiano su Commercio e Clima, Fairwatch.
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