
Quando Bolsonaro insultò le vittime della dittatura
Tratto da: Adista Notizie n° 15 del 19/04/2025
42224 BRASILIA-ADISTA. È favorevole alla pena di morte: «Non ho mai visto un morto tornare a commettere reati»; “liberale” in economia, è per la privatizzazione di molte imprese statali; dice: piuttosto che omosessuale, «preferirei mio figlio morisse in un incidente»; ritiene che «gli afrodiscendenti non servono a nulla, nemmeno alla riproduzione»; afferma: «Ho fatto quattro figli maschi e in un momento di debolezza anche una femmina»; la sua frase più scioccante e perciò la più nota è: «L’errore della dittatura è stato torturare e non uccidere» tutti. Minimale questo florilegio di frasi, ma sufficiente a tratteggiare la levatura morale, politica e umana del loro autore, Jair Bolsonaro – presidente del Brasile prima di Luiz Inacio Lula da Silva –, impegnato in questi giorni a evitare il processo cui è stato rinviato dalla Corte Suprema per i tanti reati che gli vengono imputati e che potrebbero costargli una quarantina d’anni di carcere (v. notizia precedente).
E fra i tanti episodi, che per livore e crudeltà fanno il paio con le frasi riportate, ce n’è uno che fotografa la bassezza umana dell’ex presidente. Lo riprendiamo da un articolo a firma di Amanda Marton Ramaciotti, apparso sulla rivista online Anfibia (9/3/25), sul “fenomeno” di "Aún estoy aquí". Il film (“Sono ancora qui” nelle sale cinematografiche italiane) che in Brasile ha avuto un successo e una diffusione enorme, tratta della vicenda della famiglia di Rubens Paiva. Ingegnere e giornalista, deputato dal 1962, sedeva sugli scranni dell’opposizione di sinistra quando il golpe militare nel 1964 si impossessò del Paese. Mai partecipe della lotta armata, pronto ad aiutare i militanti di sinistra, fuori e dentro il Brasile, il 20 gennaio 1971 fu sequestrato nella sua casa a Rio de Janeiro e arrestato. Di lui non s’è saputo più nulla, fino a quando nel 1996 fu rilasciato alla famiglia il certificato di morte. Anche la moglie, Eunice Facciolla Paiva, protagonista nel film, fu arrestata e trattenuta per 12 giorni. Rilasciata, dopo la scomparsa del marito si laureò in Legge e iniziò la professione di avvocato, specializzandosi in diritto indigeno e difendendo le popolazioni decimate a opera dei militari per procedere al disboscamento dell’Amazzonia. È morta di Alzheimer nel 2018.
E veniamo all’episodio che coinvolge Bolsonaro così come lo racconta Amanda Marton. Era il «2014. L'ingresso della Camera dei Deputati brasiliana a Brasilia era gremito. Giornalisti, amici e familiari dell'ex deputato Rubens Paiva partecipavano alla cerimonia di inaugurazione della sua (di Rubens Paiva, ndr) statua nell'edificio. Era un omaggio postumo a un uomo che aveva sempre difeso la democrazia nel Paese e che fu assassinato dai militari durante la dittatura».
«L'eccitazione del momento – continua Marton – fu interrotta dall'intervento di un deputato che fino a quel momento era stato considerato un radicale, Jair Bolsonaro. Insieme a un piccolo gruppo di amici e ai suoi figli (ora anche loro membri del Parlamento), l'uomo che più tardi sarebbe diventato presidente del Brasile si diresse a passo sicuro verso la cerimonia funebre. Una volta arrivato, gridò in direzione della statua: “Rubens Paiva ha avuto ciò che si meritava! Miserabile comunista, vagabondo!”».
«Non soddisfatto, Bolsonaro sputò sulla statua appena inaugurata. Uno sputo nel mezzo di un omaggio a un collega parlamentare brutalmente assassinato. Uno sputo alla lotta contro la dittatura». Ancora: «Ha anche colto ogni occasione – riferisce l’autrice – per elogiare il colonnello Carlos Alberto Brilhante Ustra, uno dei leader più sanguinari della macchina di tortura del regime, che torturava le madri davanti ai loro figli, metteva topi e scarafaggi vivi nelle vagine delle donne e sollecitava lo stupro e la tortura con elettroshock. Secondo Bolsonaro, era un “eroe”, ed è per questo che ha ancora un libro sul comodino con la sua storia».
*Foto presa da Flickr, immagine originale e licenza
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