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Confessare Gesù Cristo per l’ecumene tra Nicea e oggi. La 61ma sessione di formazione ecumenica del Sae

Confessare Gesù Cristo per l’ecumene tra Nicea e oggi. La 61ma sessione di formazione ecumenica del Sae

CAMALDOLI (AR)-ADISTA. Nella sessione del Sae (Segretariato attività ecumeniche) alla Foresteria di Camaldoli, in corso fino al 2 agosto, un vivace panel ha affrontato il tema “Confessare Gesù Cristo per l’ecumene, tra Nicea e oggi”. Al tavolo l’arcivescovo di Modena-Nonantola Erio Castellucci, vicepresidente della Conferenza episcopale italiana, Athenagoras Fasiolo, vescovo ausiliare della Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia, e Lothar Vogel, decano della Facoltà valdese di teologia di Roma. Introdotti dalla presidente del Sae, Erica Sfredda, i tre relatori partendo dalle definizioni di Nicea hanno mostrato come l’eredità di quel Concilio è stata recepita dalle Chiese e quali implicazioni ha per la fede oggi.

Castellucci ha messo in luce come l’adozione nel linguaggio della fede della formula homoousios, una categoria non biblica, «apre e conferma la possibilità di integrare nel corso della storia le diverse tradizioni, culture, espressioni, perché esprimano il contenuto della fede stessa in maniera adeguata alla comprensione dei contemporanei». Questa formula, di tradizione greca, «fissa un punto che supera questa cultura stessa, esprime la capacità della fede cristologica di intrecciarsi con le culture senza lasciarvisi ingabbiare».

Nicea inaugura una definizione di Dio che apre al “monoteismo trinitario”, ha spiegato l’arcivescovo: «Dio cioè non è un essere solitario, autarchico, ma è in sé stesso relazione. E lo è essenzialmente, per natura, e non accidentalmente. Dio è generante e generato, è famiglia, è dialogico, rapporto di dare-ricevere; un Dio che dà si concepiva facilmente, ma un Dio “derivato”, “che riceve”, sembrava impossibile da concepire».

Da qui Castellucci trae una conseguenza antropologica fondamentale: «Se Cristo non è un semplice uomo da imitare, e nemmeno solo un Demiurgo semidivino, ma è da sempre Figlio, noi – creati “in Cristo Gesù”, fatti a immagine e somiglianza di Dio, e chi vede Cristo vede il Padre – siamo fatti per la relazione». Questo ha un riflesso anche sull’identità cristiana che «non è monolitica, ma relazionale» e sull’identità ecclesiale. «Unità e diversità insieme: questa è la natura della Chiesa. Di qui anche l’impegno sociale e politico, che le Chiese continuano a portare avanti insieme». È la vocazione pubblica del cristianesimo, oggi essenziale nell’impegno per la pace nel mondo.

Le Chiese protestanti lungo i secoli hanno redatto delle Confessioni di fede secondo i linguaggi del tempo nelle quali il termine homoousios compare in tutte, salvo pochissime eccezioni, ha spiegato Lothar Vogel. «Nicea ha stabilito una grammatica della fede che ci unisce».

Nella teologia riformata, da Lutero e Melantone in poi, i Concili possono errare essendo un’espressione umana e quello di Nicea è ritenuto autorevole non di per sé, ma perché la sua dottrina proviene dalla Scrittura. Ma per i riformatori seguire la Scrittura «non vuole dire ripetere il dettato della Bibbia, ma riconoscere la possibilità di una certa creatività linguistica». Del Concilio del 325 Vogel ha messo in luce anche una problematicità: «la verità viene definita nella sua differenza da un errore su cui si pronuncia un anatema», con diverse conseguenze tra cui la stigmatizzazione di chi non la pensava allo stesso modo e le esclusioni. In conclusione rileva che «è importante ricordare Nicea perché ne siamo debitori, tutti quanti provano ancora a dire e vivere la buona novella legata a Gesù Cristo. Per me, in questa memoria rientra anche, però, l’empatia con gli sconfitti».

Per il mondo ortodosso Nicea ha un significato molto importante. Athenagoras Fasiolo ha rievocato l’invito di Gesù a battezzare ogni creatura che si estende dagli apostoli ai presbiteri, guide delle comunità fondate dagli apostoli, e ai vescovi come diretti interpreti della fede apostolica che si riuniscono nei Concili. Questa modalità mostrava la dimensione intercomunitaria aumentando l’autorità della loro testimonianza nel mondo in cui vivevano. Prima dell’indizione da parte di Costantino del Concilio del 325, la fede universale era espressa attraverso i Simboli battesimali. La chiesa nascente aveva già coscienza della fede trinitaria, anche senza avere concetti ad hoc. Nicea rappresenta un cambio epocale. Si stabilisce un principio per cui i simboli battesimali non sono sufficienti, ma c’è bisogno di un simbolo universalmente riconosciuto basato sul criterio dell’ortodossia della fede di fronte a correnti neoplatoniche e nuove professioni di fede. Il Simbolo di Nicea codifica il discorso su Dio con atti che hanno un valore universale. Il Simbolo diviene fondante per la Chiesa cristiana. C’è una comprensione radicalmente nuova di Dio, un Dio personale e relazionale, che diventa accessibile come Padre, Figlio e Spirito Santo. La dimensione pneumatologica si svilupperà nel 381 con il Concilio di Costantinopoli. Nicea emana anche dei canoni ecclesiologici ed esprime una sinodalità che è una preziosa eredità in evoluzione.

Ha concluso il panel un dibattito plurale per contenuti e accenti che ha spaziato tra il rapporto tra chiesa e potere politico, il distacco dalle radici ebraiche, i linguaggi della fede, la recezione della Tradizione.

La giornata è terminata con la prima celebrazione ecumenica nella chiesa del Monastero alla quale ha partecipato anche la Comunità monastica. Riflettendo sul libro della Genesi (Gen 26,17-19) in cui Isacco riattiva i pozzi che suo padre Abramo aveva scavato ed erano stati sigillati, e poi trova un pozzo d’acqua viva, il pastore valdese Alessandro Esposito ha sottolineato la continuità con i padri e le madri come segno di fedeltà e l’azione di scavare il pozzo delle tradizioni per liberarli dai detriti. «Si scava sempre di nuovo nella fede. È un compito che attende ogni nuova generazione. La fede è chiamata a manifestare audacia e intraprendenza».

 

Foto Laura Caffagnini

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