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La resistenza delle vite. La teologa Cristina Simonelli alla 61ma sessione di formazione ecumenica del Sae

La resistenza delle vite. La teologa Cristina Simonelli alla 61ma sessione di formazione ecumenica del Sae

CAMALDOLI(AR)-ADISTA. Prosegue alla Foresteria di Camaldoli il cammino di approfondimento dell’eredità del Concilio di Nicea nel 1700° anniversario. La tavola rotonda di martedì è stata tematizzata nell’ambito del rapporto tra il mistero di Dio e la cultura umana con il titolo generale “Dire Gesù” che richiama la declinazione in chiave ecumenica. Nella prima parte, “Dire Gesù: tra Scrittura e culture, tra Nicea e oggi”, introdotta dal giornalista Riccardo Maccioni, la teologa Cristina Simonelli, docente di storia della chiesa antica e teologia patristica alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, già presidente del Coordinamento teologhe italiane, è partita dalla domanda della prima ora di alcuni discepoli - «Rabbì – che, tradotto - significa Maestro, dove dimori?”».

«La glossa – che significa Maestro – è importante perché ci stiamo muovendo all’interno di un passaggio di parole, di pratiche e non solo di culture come lingue ma anche come un passaggio di forme religiose e di fedi: la fede di Gesù, attraverso Gesù e in Gesù. In qualunque modo si voglia interpretare Nicea, come rivisitazione dell’idea di Dio o sul versante cristologico, io sto più sul versante di una rivisitazione dell’idea di Dio, e tuttavia non si può negare che nell’uno e nell’altro aspetto è a causa di Gesù».

In questa prospettiva la teologa rintraccia «la prima forma di reciproca resistenza, in senso positivo: aprire mondi, aprire spazi, interrogarsi. Una resistenza tra l’orizzonte di questo monoteismo, e la considerazione che nei testi del Nuovo Testamento quell’uomo – il suo insegnamento, la morte violenta e l’affermazione di un incontro con il Vivente – viene chiamato Kyrios, titolo con il quale la tradizione greca traduce Hashem. È una reciproca resistenza in qualche modo che apre questo dibattito niceno e la storia degli effetti nello sviluppo del IV secolo».

Simonelli interpreta culture anche nel senso della vicinanza tra comunità, pratiche, esperienze e vite. «L’esperienza è duplice: è quella di una relazione immediata con il Vivente, però è anche mediata. Tra il mediato e l’immediato teniamo anche la forza delle vite che è mediata prima di tutto dalle Scritture, che non sono un precipitato a presa diretta ma hanno una forma culturale di religioni».

Citando il libro di Hanz Gutierrez, Oltre la Bibbia, oltre l’Occidente la teologa sottolinea due caratteristiche determinanti per l’articolazione e la fioritura del senso: la lentezza e la pluralità. «Anche il testo delle Scritture resiste dando lentezza e un invito alla pluralità. Come è per le Scritture, lo è per le forme liturgiche: homousioos è inserito in un Simbolo che è battesimale. Il Credo è anche una resa sintetica della narrazione dei fatti biblici ma tutte le forme più strutturate della liturgia sono un rilancio delle Scritture».

La teologa vede nella grande crisi del IV secolo, che ha accompagnato il passaggio tra Nicea e il primo Concilio di Costantinopoli, l’ambito nel quale è stato ampliato il concetto di sostanza con quello di sostanza plurale, ma anche l’ambito di una riflessione sulla necessità e sui limiti del linguaggio teologico e dogmatico. «Penso alla riflessione di Tommaso che dice: “l’atto della fede non termina all’enunciato ma alla cosa, alla realtà”». Dalla crisi del IV secolo scorge anche aspetti interessanti come la ricerca di costruire un perimetro all’interno del quale provare a fare una corretta professione di fede ma senza affermare che gli asserti umani siano Dio a presa diretta, perché questo sarebbe un’idolatria.

Rispetto al ruolo delle vite, che Simonelli rimette in scena, vite spesso escluse, esse spodestano la rappresentazione di Dio in un ordine imperiale creata da un sistema gerarchico. «Nicea, pur nella paradossalità del suo linguaggio filosofico antico, è proprio contro una visione imperiale, perché nell’affermare un’unità in cui c’è un principio non di gerarchia e c’è un “uno” plurale, mette a critica la visione patriarcale dell’impero».

Nel racconto dell’incontro di Gesù con la donna siro-fenicia, «dove il mondo della vita si impossessa di un sistema in cui Gesù si trova e lo muove» e nella risposta dei martiri di Abitene  –  Sine dominico non possumus – a chi chiede loro perché si sono riuniti a pregare nonostante il divieto, la teologa rintraccia la resistenza delle vite. «Dominico non è solo la giornata di festa cristiana – nella traduzione più nota – ma è anche un plesso generale che vuol dire la celebrazione eucaristica, la memoria di Gesù e un altro principio kyriarcale che entra in conflitto e giudica. È quel plesso di resistenza dove la Scrittura e la liturgia celebrata con il suo carico di vite resiste a un principio kyriarcale imperiale, alle forme di violenza incrociate a cui, parlo in casa cattolica, non siamo stati mai estranei con una violenza degna degli imperatori, e di cui Giovanni Paolo II ha chiesto perdono».

Il filo della buona resistenza disegnato nella relazione attraverso molti luoghi, per la teologa «è una memoria mediata di pratiche da cui è possibile rileggere Nicea nella sua onda lunga. Il linguaggio semplice e arrogante insieme della filosofia greca muove l’uno a tenere dentro l’ipostasi. Mi piace rubare il canone 7 del secondo Concilio di Costantinopoli che parlando delle due nature in Cristo dice: considereremo il numero due non come numeri da sommare ma come la custodia della differenza. Credo che anche la forma greca, se non vuole espropriare ma sta in tensione, abbia delle cose da dire anche rispetto alla santità di Dio».

Concludendo, Simonelli è convinta che, se non se ne fa una retorica del consenso, «Nicea può convertirsi come ogni esperienza ecclesiale dicendo con autorevole umiltà le proprie conclusioni e lasciandosi attraversare dalle culture e dalle vite, diventando così spaziosa e benedicente».

 

Forto di Laura Caffagnini

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