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Emmanuele, il Cristo felice. Il teologo Hanz Gutierrez alla 61ma sessione di formazione ecumenica del Sae

Emmanuele, il Cristo felice. Il teologo Hanz Gutierrez alla 61ma sessione di formazione ecumenica del Sae

CAMALDOLI (AR)-ADISTA. Nella tavola rotonda “Dire Gesù entro la pluralità culturale”, moderata dal giornalista Riccardo Maccioni, sono intervenuti relatori di diverse provenienze geografiche e confessionali che, insieme alla loro specificità, hanno caratterizzato i contributi offerti per sviluppare il tema della sessione.

L’intervento di Hanz Gutierrez, originario del Perù, laureato in filosofia, teologia e medicina, e docente di Teologia sistematica alla Facoltà avventista di teologia di Firenze, si è incentrato su una critica articolata alla cristologia.

Secondo il docente, la crisi del cristianesimo non risiede, come si pensa comunemente, in un allontanamento da Cristo, ma nella stanchezza e nella rigidità della cristologia che, in primo luogo, perde in eterogeneità e complessità a Nicea e in seguito. In secondo luogo, nella cristologia dell’homoousios si perdono dinamicità e apertura.

Nella testimonianza biblica il relatore trova una complessità e un’incompletezza feconde. Il Vangelo di Matteo esordisce con il dato fondante: Cristo, uomo e Dio, a cui aggiunge due nomi: Gesù ed Emmanuele. Nel primo, seguendone l’etimologia “salva il suo popolo dai suoi peccati”, Gutierrez ravvisa il rischio di un “Gesù purista” che paradossalmente potrebbe diventare pericoloso per l’essere umano perché, e qui cita Homi Bhabha, «anche il più grande bene può diventare portatore ed essere mediatore di sofferenza. Essere e dover essere di fronte a un Gesù che non indulge a nessun peccato, facilmente diventa un’esperienza insopportabile e traumatica». Gutierrez ne deduce che il nome di Gesù, pur rappresentando una componente essenziale della cristologia, non la rappresenta tutta. In questo nome non è visibile la sua capacità di essere un vero compagno di viaggio.

La cristologia, continua Gutierrez, è legata alla vita: il Cristo è il Dio della vita, non il Dio ossessionato dal peccare dei propri figli. Emmanuele significa accompagnamento incondizionato, a prescindere dagli errori che commettiamo. Questo nome determina un cambio di registro sostanziale nella comprensione dell’interazione di Cristo con l’essere umano. In primo luogo «Emmanuele non guarda i nostri peccati passati, presenti o latenti. Non che non contino: i peccati hanno un valore determinante ed esprimono una piega anomala del nostro essere e il terribile scenario d’una distruzione possibile. Emmanuele, tuttavia, non ci chiede di essere senza peccati per poter camminare con noi, perché la vita è più grande dei peccati che la intrappolano».

In secondo luogo, «Emmanuele è orizzontale mentre Gesù è verticale. C’è un certo paternalismo nascosto nel nome di Gesù. C’è in stato di latenza e può essere controllato e bilanciato solo dalla presenza di Emmanuele. Se Gesù rimanesse solo Gesù, staccato da Emmanuele, facilmente diventerebbe un Gesù intransigente».

La critica a una cristologia solo di “Gesù”, si estende anche all’essenza stessa della religione. Secondo il teologo non basta rimanere nell’ortodossia e nemmeno nell’ortoprassi. È necessario un terzo registro teologico e umano, l’ortopatia, intesa come vulnerabilità nella e per la relazione. «Emanuele è il Cristo emotivamente sano, perché si sente parte e fa sentire gli altri parte d’un legame pre-razionale, pre-linguistico, pre-dogmatico e pre-morale che li unisce». Quel legame che Julia Kristeva definisce «sentimento oceanico» e Gutierrez paragrafa come «esperienza radicata nel legame primario fra una madre e il suo bimbo, il quale serve come momento fondativo di connessione e di fiducia per le esperienze successive».

Alla base dell’ortopatia «c’è la vulnerabilità e l’incompletezza di chi si lascia amare dagli altri», la consapevolezza di essere preceduti «dagli altri, dal mondo, da Emmanuele, da un bene più grande di noi e al quale apparteniamo per grazia. L’ortopatia, in quanto “sentimento oceanico” di appartenenza pre-religiosa, è l’unico antidoto possibile di fronte al dilagare di quello che Charles Taylor descrive come l'onnipotente e onnipresente “ragione strumentale” che illusoriamente ci fa sentire sovrani del mondo e padroni di noi stessi».

In conclusione, per il suo autore, il titolo della relazione potrebbe diventare “Dire Emmanuele entro la pluralità culturale”, per tre motivi. Primo, «perché Gesù è un nome centripeto al cristianesimo e lo è diventato ancora di più nell’uso che i cristiani ne hanno fatto. Gesù è un nome intenso, generoso ma esprime una “universalità d’accoglienza”. Tutti i popoli devono venire da Gesù a trovare in lui redenzione. Emmanuele è invece un nome centrifugo al cristianesimo ed esprime una “universalità nomadica. Emanuele va dagli altri popoli, li corteggia e li accompagna, e fa del loro cammino la sua propria dimora, e in questo è felice».

Secondo, perché «Emmanuele è un nome pre-religioso e post-religioso in quanto esprime un atteggiamento umano d’empatia e di legame con tutti i popoli a prescindere dal loro credo. È Emmanuele, non Gesù, il vero elemento transculturale, multiculturale ed interculturale del cristianesimo. Emanuele rompe col cristianesimo del potere istituzionale e ideologico che si nasconde ancora dietro il Gesù recuperato dalle chiese».

Terzo, «perché le altre culture del sud del mondo, per utilizzare una espressione di Philip Jenkins, non solo si muovono già sul registro introdotto da Emanuele, ma possiedono anche degli elementi e dei registri che possono aiutarci a dire meglio e più profondamente chi è Emmanuele per noi». Se Emmanuele è quest’affermazione della vulnerabilità nella relazione come credere pre-religioso, allora «è possibile anche arricchire Emmanuele con le elaborazioni dei cristianesimi del sud, e più generalmente con la biofilia delle culture del sud che deriva dalla loro scommessa culturale sul legame e sulla relazione». Gutierrez conclude con l’immagine di Cristo felice, «perché la felicità non è una virtù, meno ancora una medaglia, ma è sempre il segno della presenza degli altri nella nostra vita. Sono gli altri, gli accompagnati, che rendono felice Emmanuele quanto lui ha reso felici loro, accompagnandoli così come sono».

 

Foto di Laura Caffagnini

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