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“Israele e Palestina”: fermare il massacro. Un appello interreligioso alla 61ma sessione di formazione ecumenica del Sae

“Israele e Palestina”: fermare il massacro. Un appello interreligioso alla 61ma sessione di formazione ecumenica del Sae

CAMALDOLI (AR)-ADISTA. «Oggi la priorità assoluta è fermare questo massacro insopportabile. La nostra solidarietà con le vittime è la solidarietà con noi stessi. Non è solo il suicidio di Israele, ma è il suicidio del mondo».

Una chiamata all’impegno è emersa dalla tavola rotonda “Uno sguardo su Israele e Palestina” – all’interno della sessione Sae in corso a Camaldoli –  a cui hanno partecipato la storica Anna Foa, in collegamento video da Roma, e l’imam di Firenze Izzedin Elzir, introdotti da Brunetto Salvarani, presidente dell’associazione Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam.

L’appello a porre fine a quello che è stato definito “uno stillicidio di insensatezza e di dolore” e di cui sono stati ricordati il massacro del 7 ottobre, le uccisioni di bambini e bambine a Gaza, gli omicidi in Cisgiordania, viene dai protagonisti della tavola rotonda e dalle voci di chi si è messo in ascolto ed è intervenuto nel dibattito.

«Ci sentiamo impotenti, vorremmo gridare, ma sappiamo che sarebbe inutile. Allora per fare un passo avanti abbiamo voluto ascoltare due protagonisti dell’impegno per il dialogo e la ricerca della pace» ha esordito Salvarani che ha anticipato gli interventi dei due ospiti sottolineando come il conflitto israelo-palestinese sia «una situazione rivelativa che smaschera debolezze e contraddizioni della nostra società» e come ancora prima del 7 ottobre sia avvenuto «il ripristino nei mass media dello schema dello scontro di civiltà che pensavamo di avere messo da parte. Di riflesso, i già faticosi processi di dialogo interreligioso, l’integrazione virtuosa tra cristiani e musulmani, ma non solo, anche in Italia hanno subito una brusca frenata. Credo che avesse ragione il cardinal Martini quando. tornando da un viaggio in Israele nel 2013, diceva: “Ogni popolo guardi il dolore dell’altro e la pace sarà vicina”. Il problema è che non ci stiamo educando a guardare il dolore dell’altro».

Anna Foa, vincitrice del Premio Strega per la saggistica con il volume “Il suicidio di Israele”, ha ripercorso con lucidità e franchezza la catastrofe di Gaza seguita all’odioso massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre e l’oscillazione della percezione sulla tragedia in atto che ha portato alla distruzione, da parte dell’esercito israeliano, del 70 per cento della Striscia, a migliaia di vittime e, da marzo, alla fame dei gazawi. La storica ha rilevato che la percezione che il mondo ha avuto di questa terribile vicenda, che comprende anche l’abbandono degli ostaggi nel corso di trattative sabotate da Netanyahu e Hamas, è a fasi alterne. «Dopo il primo orrore è subentrata la percezione che quello che stava succedendo a Gaza non era solo un attacco per liberare gli ostaggi e distruggere Hamas ma era una vendetta, una punizione».

La storica ha rilevato che, nel succedersi del ricompattamento di una grande parte della popolazione israeliana attorno alla guerra, che si è spinta anche in Libano, sono subentrati due aspetti negli ultimi tempi: l’empatia verso i palestinesi e lo stato d’animo di rifiuto verso quello che sta succedendo – la mancanza di cibo e medicine, la morte dei bambini –, che ha spinto anche dei politici a riconoscere la Palestina, ad esempio Macron.

Secondo Foa l’aspetto religioso sta giocando un ruolo nella tragica vicenda. «Nonostante Israele sia nato con una forte prevalenza laica, resta però il fatto che la religione ha influenzato profondamente quello che è successo oggi, ma ha anche determinato la fine dell’esperienza di Oslo degli anni ‘90 e la disillusione sulle possibilità di pacificazione». Due momenti di rottura, opera di religiosi estremisti ebrei, sono stati, nel ’94, l’uccisione di 30 palestinesi nella moschea di Hebron con la creazione di una mitologia razzista e messianica, e nel ’95 l’assassinio di Rabin da parte di un fanatico ebreo.

Secondo la storica, «il ruolo dei rabbini, tranne qualche eccezione, non è un ruolo di opposizione a questi estremismi. In tutto il mondo l’opposizione a questa situazione viene soprattutto dai liberal –  riformati e conservatives –. Il mondo dei coloni si è espanso negli ultimi anni, hanno influenza crescente nell’esercito attraverso l’ideologia messianica, soldati in divisa con o senza kippa sono diventati religiosi, si agitano invocando espressioni cabbalistiche e messianiche. Possono sembrare aspetti ininfluenti, in realtà l’ideologia che si diffonde è estremista, estremamente razzista verso gli arabi. Questo ci porta a dire che l’ebraismo è diventata una religione che viene assunta come arma da parte della parte più retriva della popolazione e dei suoi capi. Ma io non credo che l’ebraismo sia tutto così».

La domanda che emerge è: «Le religioni possono avere un ruolo nel processo di pace in Israele e nella diaspora? Io credo che possono averlo soprattutto nella diaspora perché in Israele non esistono congregazioni riformate. La diaspora deve lanciare un appello per la pacificazione tra ebrei e musulmani. Vorrei ricordare qui la bella dichiarazione del cardinal Zuppi e del presidente della Comunità ebraica di Bologna Daniele De Paz. Un legame religioso e una possibilità può venire dalla diaspora, però ci vorrebbe un coinvolgimento del rabbinato di Israele».

Izzedin Elzir, originario di Hebron, dal 2011 imam di Firenze e fondatore della Scuola fiorentina di alta formazione per il dialogo interreligioso e interculturale, ha ripercorso la storia della Palestina dal 1948, smentendo che fosse una terra senza popolo, come si disse quando fu proclamato lo Stato di Israele. Nella sua narrazione ha rievocato diversi conflitti e le due Intifada, fino a giungere a oggi. «Il 7 ottobre io, come palestinese, ma anche come imam e come uno dei responsabili dell’Unione delle Comunità islamiche in Italia ho detto “Condanniamo l’uccisione di qualunque civile israeliano, ebreo”.

Elzir ritiene che il problema non sia la difficoltà di dialogo: «il problema è l’occupazione, è una questione di diritto, di vita e di morte. Se il mio amico sta facendo una cosa sbagliata devo parlare con lui dicendo la verità. Ho incontrato una commissione rabbinica con cinque rabbini di area allargata. Sanno che in questa guerra noi moriamo ma anche loro perdono. Per noi non è una questione di religione. Siamo contro gli occupanti, non contro i religiosi. Diventa guerra di religione se vogliono distruggere le moschee. La mia proposta come palestinese e italiano, religioso e laico, è che dobbiamo aiutare la Comunità ebraica italiana a condannare gli atti criminali, come la comunità cristiana ci ha aiutati a condannare i terroristi musulmani. I cristiani possono chiedere alla Comunità ebraica di non essere ostaggio del governo di Netanyahu. Come persone riunite qui possiamo fare pressione sul governo italiano affinché smetta di mandargli le armi».

Nel dibattito che ha concluso la serata si è creato un dialogo che ha intrecciato voci e visioni. «Sono un rabbino ortodosso di una comunità italiana attivo da vent’anni per creare una scuola di dialogo interreligioso dove con l’amico Izzedin lavoriamo insieme –  ha detto Joseph Levi –. In quanto fondatore e vicepresidente della Scuola mi chiedo e continuo a chiedere quali azioni dobbiamo e possiamo fare per avvicinare le persone, per creare possibilità di dialogo a livello locale, nazionale, e fra nazioni che sono in conflitto. Fare dialogo, come disse il cardinal Martini citato stasera, vuol dire essere capaci di ascoltare il dolore dell’uno e dell’altro. Questa sera abbiamo sentito la narrazione del dolore della parte palestinese, ma non abbiamo sentito il dolore della parte ebraica. Anna ha raccontato il suo dolore rispetto alla direzione attuale dello Stato di Israele, che posso anche condividere, ma è una piccola parte della storia del popolo ebraico. Continuiamo a concentrarci su quali azioni propositive di pacificazione possiamo fare, con quali metodi, con quali mezzi, non creando due gruppi in opposizione, come fanno i giornali e i partiti. Noi dobbiamo tenere un’altra posizione».

Per il teologo Adnane Mokrani oggi la priorità assoluta è «fermare questo massacro. La nostra solidarietà con le vittime è la solidarietà con noi stessi. Il problema non è solo il suicidio di Israele, ma è il suicidio del mondo. C’è un problema di sopravvivenza dell’umanità che viene dimenticato. Bisogna reinventare il dialogo interreligioso, soprattutto il dialogo ebraico-islamico. Oggi dobbiamo parlare della bellezza dell’ebraismo, dei suoi valori come valori dell’umanità. Quando vedo la mia speranza nel mio fratello, e io sono la sua speranza, possiamo fare qualcosa insieme come esseri umani».

«Sono d’accordo sull’urgenza assoluta di fermare questo massacro, il resto viene dopo. Solo attraverso un’attenzione e una ricreazione dell’amore e del rispetto verso l’altro» ha detto Anna Foa dichiarando la propria stima per rav Levi e il suo impegno.

Nel concludere, Brunetto Salvarani ha ricordato le parole di un grande amico del Sae, Bruno Segre, ebreo laico, uomo di pace, che scriveva negli ultimi anni della sua vita: «Tutti quei sassi sui quali si commuove mezzo mondo – ebrei, cristiani e musulmani – li renderei volentieri innocui facendone un ideale grande museo. La vita di un bambino, che sia ebreo, arabo, buddhista o figlio di uno sciamano, vale più di tutta quella cianfrusaglia sulla quale ci stiamo sbranando da generazioni. È ora di finirla. Soprattutto in ragione del fatto che il mondo, per chi non se ne fosse accorto, è una barca che sta affondando, e su quella barca stiamo navigando tutti insieme».

 

Foto di Laura Caffagnini

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