Chi paga il prezzo della militarizzazione dell'Occidente. Un'analisi su "Forbes"
La militarizzazione dell’Occidente è al centro dell’articolo di Alberto Bruschini pubblicato da Forbes ieri, 1 dicembre, con il titolo "Meno risorse per la competitività e rischi per le condizioni di vita: il prezzo del riarmo occidentale". L’interessante analisi prende le mosse dalla «mancata partecipazione del presidente statunitense Donald Trump al G20 in Sudafrica», assenza che «segna la fine del multilateralismo a guida americana. Il cambio di rotta nella politica estera perseguito da Trump, insieme alle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, ha mutato il paradigma che aveva guidato l’Occidente dopo la fine della Guerra fredda, spostando la geopolitica globale dalla competizione al conflitto». È «questo cambio di paradigma» che «ha portato a una crescente militarizzazione dell’Occidente, anche per contenere l’espansione della Cina. Secondo l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri), negli ultimi 20 anni la spesa per la difesa dell’Occidente è quasi triplicata: dai 956 miliardi di dollari del 2002 ai 2.714 miliardi del 2024».
«Le spese militari rappresentano una delle principali cause dell’enorme debito pubblico americano», osserva Bruschini. «Dalla dissoluzione dell’Urss, gli stanziamenti per la difesa sono aumentati di 2,65 volte, passando da 378,46 miliardi di dollari nel 2002 ai 997,309 miliardi del 2024, a fronte di una spesa pubblica complessiva di 3.996 miliardi. Secondo l’economista statunitense Jeffrey Sachs, proprio le spese militari costituiscono uno dei fattori determinanti dell’attuale livello del debito Usa». Se dopo la pandemia il rapporto debito/Pil osservata negli Stati Uniti era tornato nel 2021 al 112%, rispetto al 128,4% del 2020, «si è invertita con l’aumento abnorme delle spese militari: nel 2024 il rapporto ha raggiunto il 129%, superando quello del 2020. Il sommovimento geopolitico ed economico provocato dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente e dal cambio della politica estera americana – passata dalla globalizzazione alla logica degli accordi bilaterali – è molto più profondo di quanto si potesse immaginare».
Secondo il principio dell’America First, «la riduzione della spesa militare americana oltre confine è incompatibile con la prosecuzione delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente», seguita l’autore. «La Casa Bianca ha fretta di chiudere la guerra in Ucraina. Gli alleati europei – con cui Trump non ha mai avuto grande sintonia – sono partner commerciali cruciali, ma allo stesso tempo vengono considerati un buco nero in cui spariscono asset militari. L’Europa e la Nato si affannano a trattenere gli Stati Uniti nell’alleanza atlantica, ma a quale prezzo? Washington verserà sempre meno risorse, mentre incasserà somme crescenti dalla vendita di armamenti. L’Ue si ritroverà così a sostenere il costo della Nato, della sicurezza (riarmo) e degli aiuti all’Ucraina, sia in guerra sia in tempo di pace».
«In Italia – afferma Bruschini – gli effetti del riarmo si vedono già da quest’anno: secondo l’ultimo Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp), la spesa per la difesa, dai missili ai blindati, assorbirà il 41% dei fondi destinati all’industria. E ciò avviene mentre il piatto piange. I continui appelli della presidente del Consiglio al rigore nei conti pubblici, che nessuno contraddice, restano lettera morta di fronte a un’economia destinata a crescere meno dell’1% nei prossimi tre anni, nel corso dei quali dovremo destinare altri 12 miliardi alla difesa».
«Se le premesse sono queste – tira le somme Bruschini – non si comprende come Confindustria non colga il rischio che questo drenaggio di risorse finanziarie renda vane le richieste di piani triennali da 600 miliardi di dollari per aumentare la capacità produttiva e la competitività delle imprese che, con le esportazioni, hanno contribuito a mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti e l’affidabilità del debito pubblico».
Il testo integrale dell’articolo è a questo link
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