L'enfasi delle chiavi
Che Roberto Benigni sia un genio nella sua forma io non ho dubbi. E lo aveva confermato un genio più genio di lui, Federico Fellini. Il Premio Oscar toscano ha una sorta di talento naturale che lo fa essere un corpo teatrale. Con il suo ultimo lavoro su Pietro, l’apostolo, ha confermato la sua versatilità, la sua resistenza nelle due ore ininterrotte di performance (seppure con qualche segno di fatica verso la fine… del tutto normale per uno che ha superato i 70 - capitava anche a Chaplin) .
Nessuno può insegnare a Benigni a fare il suo mestiere. La scelta del tema è affascinante. Il Vangelo come serbatoio di immaginazione, come colonna sonora di tante storie personali e collettive. Lo sapeva bene Pasolini quando nel 1964 fece quel capolavoro del “Vangelo secondo Matteo”. Questa proposta più che richiamare l'abusata citazione di Croce “Come non dirsi cristiani” può richiamare invece quanto ricordava il cardinale Martini - e ne era uno dei massimi esperti nel mondo - della Bibbia come “grande codice culturale”. Benigni mostra il Pietro “umano troppo umano” con dei momenti intensi, come l’incrocio con gli occhi di Gesù mentre sta dicendo per la terza volta di non conoscerlo. E poi dopo la morte del Maestro più coraggioso, che va a Roma, per morirvi crocefisso a testa in giù (la seconda parte della narrazione mi è sembrata la più intensa e convincente).
Il rischio che ho intravisto in questo racconto di Benigni è una forma di esaltazione di Pietro, o meglio della esaltazione delle “chiavi di Pietro”. Oggi l’esegesi dei testi interpreta quel brano di Matteo in una forma più critica, senza farne una investitura assoluta, come quella di un vassallaggio medievale. Pietro non è solo, è con altri. E se vogliamo dirla meglio, con altre. Prima tra tutte Maria Maddalena, a cui Gesù appare per prima nel Vangelo, dopo la risurrezione. Sarebbe stato interessante se Benigni avesse parlato anche di lei, e magari (e gli sarebbe venuta assai bene) della probabile invidia o gelosia che Pietro provava per lei.
Benigni raccontava in un luogo esclusivo, letteralmente “sopra le ossa di Pietro”, avendo alle spalle la solennissima e grandiosa cupola di San Pietro. Mi sarei aspettato che da “giullare” (nell'accezione più alta come si intendeva di Dario Fo) Benigni si fosse chiesto che ne ha fatto di quelle chiavi la Chiesa lungo i secoli... da Bonifacio VIII a Gregorio VII, dall’Unam Sanctam al Dictatus Papae. Che avesse evidenziato insomma che se Pietro aveva rinnegato Gesù, la Chiesa del potere oltre a Gesù aveva rinnegato anche Pietro. D’altra parte perché Hannah Arendt avrebbe detto di Giovanni XXIII, alla sua morte, “un cristiano sul trono di Pietro”? (L’aveva suggerito alla filosofa ebrea tedesca una cameriera romana dell’albergo in cui alloggiava nella città eterna). L’enfasi delle chiavi insomma pone una seria questione ecumenica, che oggi in un contesto di pluralismo religioso non si può ignorare.
Come ha titolato Vito Mancuso nel suo libro appena uscito Gesù e Cristo, si potrebbe dire “Simone e Pietro”. Certo anche in questo caso alla fine i due nomi si sovrappongono. Ma nell’arco della storia che hanno fatto di Simon Pietro? Come ha potuto il pescatore di Galilea indossare il triregno e il piviale? E ancora, lui che non avrebbe voluto farsi lavare i piedi da Gesù, come si sentirebbe con quel perpetuo bacio del piede nella statua in Vaticano?
Il vento (come dice il titolo della narrazione di Benigni) non è quello che lo fa innalzare sopra di tutti, come il cupolone di San Pietro, ma quello che gli ha ribaltato la vita, come ha fatto con Maddalena, le discepole e i discepoli di Gesù. Quello di un amore mosso dal vento, appunto. Un amore senza chiavi.
* Foto di Raffaele Pagani da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza
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