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PARADOSSO VATICANO SUL CASO MACIEL: LO SALVA DALLA SCOMUNICA, LO CONDANNA SENZA PROCESSO

Tratto da: Adista Notizie n° 41 del 03/06/2006

33411. CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Se p. Marcial Maciel Degollado, fondatore della potente congregazione dei Legionari di Cristo, fosse stato sottoposto a processo canonico in seguito alle accuse di cui è oggetto (v. Adista n. 39/06), sarebbe incorso nella scomunica latae sententiae. Tale, infatti, è la pena prevista nel caso in cui un sacerdote, dopo aver compiuto peccato contro il sesto comandamento, assolva sacramentalmente il o la "complice" del rapporto sessuale consumato, secondo quanto prescrive il canone 1378 del Codice di diritto canonico. Ed è proprio il reato che rappresenta il capo d'accusa principale contro Maciel. Infatti il titolo del fascicolo processuale presentato presso il sant'Uffizio dall'avvocato dell'accusa Martha Wegan cita esattamente i canoni 977 e 1378 (Absolutio complicis in peccato contra sextum).

Si tratta di un reato, accanto a pochi altri (gli abusi sessuali su minori e quelli che toccano i sacramenti dell'Eucaristia e della Penitenza), il cui trattamento è riservato dal 2001 alla Congregazione per la Dottrina della Fede. In una lettera inviata ai capi dicastero e ai vescovi, che va inquadrata sullo sfondo dello scandalo degli abusi sessuali in Usa, la Congregazione aveva stabilito infatti che tali reati ("graviora delicta") fossero di sua esclusiva competenza, allo scopo di sveltire le procedure riguardanti i casi di abuso. Un processo canonico contro Maciel, dunque, non avrebbe riguardato certamente solo l'abuso sessuale in sé, reato che va in prescrizione dopo dieci anni dal compimento della maggiore età da parte della vittima. La Congregazione per la Dottrina della Fede, bloccando il processo, ha dunque voluto evitare lo spinosissimo iter che avrebbe portato alla scomunica un personaggio tanto in vista.

Allo stesso tempo, tuttavia, la punizione "minore" inflitta dalla Congregazione a Maciel, ovvero il divieto di esercitare il suo ministero pubblico, appare impropria, sganciata com'è da un processo, il quale avrebbe dovuto dare la possibilità all'imputato di difendersi in modo formale e, eventualmente, dimostrare la propria innocenza.

In qualsiasi prospettiva la si voglia considerare, insomma, la conclusione del caso Maciel è tutto tranne che una risoluzione della vicenda, una chiarificazione, un trionfo della giustizia, come invece la stampa generalmente ha interpretato il provvedimento vaticano (v. notizia seguente).

Ad aver colto, invece, perfettamente i limiti della portata del provvedimento vaticano, è il canonista messicano p. Antonio Roqueñi, per otto anni cappellano universitario dell'Opus Dei, e poi, per vent'anni, canonista al Tribunale ecclesiastico di Città del Messico, che decise di offrire la propria opera di canonista agli accusatori di Maciel e per questo venne allontanato dal Tribunale e incaricato della cappellania in un ospedale. Il comunicato del Vaticano, ha detto a El País il 20/5, costituisce una "farsa, una simulazione molto ben mascherata"; "la sentenza è stata presentata come un favore del padre Maciel alla comunità cattolica, come se avesse rinunciato ai suoi incarichi. La verità è che il Vaticano ha ricevuto moltissime denunce con prove pesanti, di una condotta inaccettabile che ha causato un danno terribile a molte persone". In ogni caso, la vicenda non è affatto chiusa. "Tutto ciò porterà molto di più", promette Roqueñi. "Crescerà il clamore perché la comunicazione della Santa Sede non è chiara né trasparente né completa. Le vittime hanno il diritto di comunicare. Occorre curarsi della buona fama dei denuncianti, che sono stati accusati di calunnia". Maciel, conclude, ha "tenuto nell'inganno tutto il mondo, a cominciare dal papa".

Sulla stessa linea gli ex Legionari vittime degli abusi, che da una vita, segnata a fuoco da una memoria così dolorosa, conducono invano la battaglia perché la verità venga a galla, e che nel 1997 inviarono a Giovanni Paolo II una lettera aperta di denuncia. La misura adottata dal Vaticano rappresenta "una decisione molto diplomatica", è l'opinione di Arturo Jurado, uno di essi, ancora su El País (20/5). "Non mi interessa se castigano Maciel o no. Mi interessa dimostrare che le denunce sono certe. Non voglio che le mie figlie pensino che sono un bugiardo". "Non sento che sia stata fatta giustizia", dice José Barba Martín, in una lunga intervista a Milenio (23/5). "L'accusa fondamentale, che dava il titolo alla nostra querela, è l'assoluzione del complice, e questo delitto prevede ipso facto la scomunica". "La decisione comunicata dalla Santa Sede costituisce un segnale che dev'essere attentamente valutato", afferma. "È un peccato che la forma che questa misura ha assunto possa sembrare a molti una parvenza di giustizia e suggerire che la Chiesa sta applicando, come altre volte, due pesi e due misure. Inoltre, non è una condanna, ma solo un invito a ritirarsi e a meditare"; i suoi privilegi sacerdotali, aggiunge, non sono sospesi ma "limitati", con l'impedimento a dire messa in pubblico, dare la comunione o confessare: "ad un sacerdote innocente questo non viene proibito". Quanto al processo, Barba è convinto che non sia stato intrapreso perché "porterebbe con sé sicuramente la condanna" e "la Santa Sede si ritroverebbe obbligata a toccare il leader di una congregazione internazionale il cui contributo economico è assai rilevante. Si sarebbe dovuto giudicarlo. Non averlo fatto è la prova che Maciel viene considerato un uomo non sottoposto alla legge come tutti gli altri". Il provvedimento contro di lui non è un castigo in termini giuridici, continua Barba; formalmente si è preteso di fare giustizia, ma giuridicamente "ciò è stato fatto con mezzi ambigui che possono soddisfare provvisoriamente l'impegno della Chiesa nei diritti umani, ma che lasciano aperte questioni molto gravi che continueranno a arrecare danno alla Chiesa e alla società".

In un'intervista a El País (20/5), Barba si sofferma sull'intenzione di distinguere, nel comunicato della Sala Stampa della Santa Sede (v. Adista n. 39/06), tra la persona del fondatore e la congregazione dei Legionari, per la quale vengono espressi stima e apprezzamento: "puniscono padre Maciel e ringraziano i Legionari di Cristo; è come dire che il tronco è malato ma i rami stanno bene. E non è vero". Alberto Atié, il religioso al quale Juan Manuel Fernandez Amenabar, il nono ex Legionario accusatore di Maciel, deceduto nel 1995, affidò, prima di morire, la propria testimonianza, ritiene che ci sia stata "una negoziazione tra Santa Sede e Maciel per abbandonare l'investigazione. Si è negoziato con un criminale, pedofilo e colpevole di abusi su minori". "Crediamo che la nostra lotta – aggiunge sullo stesso tema Barba – sia un doloroso ma necessario servizio alla società e ai migliori elementi della Chiesa. Non ci resta ora che combattere nell'ambito della giurisprudenza internazionale per persuadere la trinità Chiesa-Santa Sede-Vaticano che, oltre ad essere fedeli cattolici, siamo anche cittadini dotati di diritti umani che la Chiesa deve rispettare, accettare e adottare". Il caso Maciel, dunque, non si chiude tra le mura vaticane. (ludovica eugenio)

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