ROSA CON SPINE
Tratto da: Adista Contesti n° 50 del 01/07/2006
LA DELUDENTE PARABOLA DELLA COMMISSIONE SVIZZERA “DONNE NELLA CHIESA”: VOLUTA DAI VESCOVI E POI RELEGATA AI MARGINI.
QUESTO ARTICOLO, DI SR. UTA FROMHERZ, MEMBRO STORICO DELLA COMMISSIONE “DONNE
NELLA CHIESA” DELLA CONFERENZA EPISCOPALE SVIZZERA, È STATO PUBBLICATO
SUL MENSILE DEI GESUITI SVIZZERI “CHOISIR” (N. 6/2006). TITOLO ORIGINALE: “LA COMMISSION ‘FEMMES DANS L’EGLISE’ JETTE L’ÉPONGE”
Il 15 novembre 2005, la Commissione "Donne nella Chiesa" teneva la sua 50.ma assemblea plenaria. En passant, il rappresentante della Conferenza episcopale svizzera (Ces) dichiarava: "La Commissione ‘Donne nella Chiesa’ potrebbe essere trasformata in un consiglio della Ces". “In questo caso - replicava la Commissione - avremmo ancora il diritto e la possibilità di avere dei contatti con donne e gruppi di donne di base?"; "No, questo non sarà più possibile".
Tagliarci fuori dal dialogo con altre donne? Non volevamo questo! Al contrario, volevamo far arrivare ai vescovi ciò che vivono e pensano le donne più diverse.
Gli inizi della Cfe
Dopo alcuni lavori preparatori, la Commissione "Donne nella Chiesa" aveva debuttato con entusiasmo nel 1989. Gli statuti le assegnavano tre finalità: "1) La Commissione ‘Donne nella Chiesa’ è l'organo consultivo della Conferenza episcopale svizzera per le questioni riguardanti il ruolo e la missione delle donne nella Chiesa. 2) La Cfe esamina, su mandato o su proposta e con l'accordo della Conferenza episcopale svizzera, questioni riguardanti la pastorale e la vita ecclesiale o sociale che hanno rilevanza per tutte le Chiese locali svizzere. Essa presenta alla Conferenza episcopale i risultati del proprio lavoro e le sottopone proposte concrete. 3) La Cfe mantiene contatti con le donne di ambienti, organismi e movimenti diversi".
I vescovi avevano nominato quindici donne nella Cfe, di età diverse, di ambienti civili ed ecclesiali diversi, di diverse nazionalità e professioni. Dovevano rappresentare le donne cattoliche, ciò che vivono, ciò che pensano. Se il progetto sembrava ragionevole e democratico, si è rivelato estremamente esigente per una Commissione che doveva lavorare unita, in vista di uno scopo comune. Occupate dai loro impegni professionali e familiari, le più giovani di queste donne non avevano praticamente la possibilità di partecipare a sedute di una giornata intera. Le dimissioni e le nuove nomine hanno portato numerosi cambiamenti. I membri della Commissione dovevano redigere da sole, a turno, i verbali dei loro incontri, ed è soltanto nel 1999 che un rappresentante dell'Istituto di sociologia pastorale è stato mandato a fare il segretario.
Secondo gli statuti, i vescovi avrebbero dovuto consultarsi regolarmente con le donne sulle questioni riguardanti la vita sociale ed ecclesiale. Non è stato così. Al contrario, la Cfe manteneva contatti continui con donne di diversi ambienti come la Lega svizzera delle donne cattoliche, la Conferenza donne della Federazione delle Chiese protestanti della Svizzera, il Gruppo di lavoro delle donne per le questioni della Chiesa a Basilea (Kff).
Nel 1996, al termine del mandato dei primi membri, le due co-presidenti dell'epoca elaborarono tre modelli allo scopo di intensificare le relazioni della Commissione da una parte con le donne della base, e dall’altra con la Ces. L'unico risultato delle discussioni con la Ces è stata la promessa che prima di ogni assemblea della Conferenza episcopale il segretariato generale avrebbe sottoposto alle due co-presidenti l'ordine del giorno, in modo che la Commissione potesse prendere posizione sui diversi punti. Una promessa regolarmente disattesa. Quando veniva inviato, l'ordine del giorno arrivava solo all'ultimo momento e i temi erano cristallizzati a tal punto che era impossibile alle donne far valere il loro punto di vista. È solo settimane o mesi più tardi che il rappresentante della Ces dava informazioni nel corso di un'assemblea plenaria della Cfe.
Motivazione
Oggi molte donne lasciano la Chiesa, dopo matura riflessione, spesso in preda ad una santa collera. Poiché non si sentono prese sul serio, preferiscono vivere la loro fede e la loro vita spirituale al di fuori della Chiesa. Far sentire la voce delle donne, non era proprio questo il ruolo della Commissione Donne? E come motivare le donne ad impegnarsi nella Chiesa?
Ponendosi la questione, la Cfe ha preso atto dell'importanza delle relazioni: le donne vogliono trovare nella Chiesa delle comunità vive, in cui possano vivere la loro fede in un clima di fiducia e di scambio reciproco. Per questo, è importante che le autorità ecclesiali parlino una lingua che tenga conto della cultura e dell'esperienza delle persone.
Poiché molte donne si sentono ferite, era inevitabile che la Cfe affrontasse la questione dell'esclusione canonica delle donne dai ministeri ordinati. La Commissione si è interessata all'insegnamento del Nuovo Testamento. Al ruolo delle donne nella Chiesa delle origini e soprattutto al ministero delle diaconesse. Quali sono le ragioni che escluderebbero le donne dall'ordinazione diaconale? Nel 1997, la Cfe ha partecipato ad un congresso, a Stoccarda, sul tema "Il diaconato, un ministero della Chiesa per le donne. Un ministero femminile legittimo?". Partecipazione che è stata molto stimolante.
Da parte delle autorità ecclesiastiche, ci è stato replicato che non vi è che un sacramento dell'ordine, un solo ordo, con tre gradi, diacono, prete e vescovo. Colui o colei che non può diventare prete o vescovo, non può nemmeno diventare diacono o diaconessa. Il canone 1024 afferma: "Solo un uomo battezzato riceve validamente l'ordine sacro". Cosa che noi abbiamo inteso in questo modo: "impegnarsi unicamente per l'ordinazione delle donne al diaconato è troppo poco. Se si ordina una donna, allora dev'essere in vista di tutti i gradi dell'ordine".
Dopo aver consegnato il nostro documento sul diaconato femminile, mons. Kurt Koch ci ha ricevute, su nostra richiesta, il 27 giugno 2003, per una discussione dogmatica. Con molte precauzioni, ci ha esposto gli argomenti di quanti si oppongono all'ordinazione delle donne. Abbiamo avvertito una certa comprensione da parte sua.
Altri temi
Nel 1997 ci siamo vivamente interessate alla Seconda assemblea ecumenica, svoltasi a Graz e, nel 1999, ci siamo espresse in occasione della Consultazione ecumenica sul futuro sociale ed economico della Svizzera, insistendo sull'importanza della ricerca genetica.
Nel 2001, nel quadro di un comunicato a proposito della legge sull'interruzione di gravidanza, abbiamo comunicato ai vescovi la nostra presa di posizione. Pur riconoscendo che dal punto di vista etico l'interruzione di gravidanza è un male, eravamo convinte che in una società scristianizzata dovesse essere depenalizzata. Dal momento che la vita intrauterina non è un'astrazione, la difesa della vita significa necessariamente "protezione delle donne incinte". Come tutti sanno, la minaccia di sanzioni non protegge la vita intrauterina. L'interruzione di gravidanza è un doloroso passo. In questi casi, voler parlare di colpa richiede che si parli anche della responsabilità del padre del bambino.
Nel 2001, abbiamo invitato per uno scambio la rappresentante dell'Associazione delle donne colpite dal celibato dei preti (ZöFra). Analogamente, abbiamo sempre dialogato con donne che ci sembrava importante incontrare, come per esempio Helene Schüngel-Straumann, professore emerito di esegesi dell'Antico Testamento.
Nel novembre 2003, in una lettera al presidente della Conferenza episcopale, abbiamo preso posizione in favore della Dichiarazione del Sinodo della Chiesa cattolica del cantone di Lucerna che, per cura pastorale, si era pronunciato a favore dell'abolizione del celibato obbligatorio per i preti diocesani e si era impegnato per l'ordinazione delle donne. Per tutta risposta, i vescovi ci hanno rinviate alla Chiesa universale in cui le opinioni riguardo al tema del celibato obbligatorio sono divise e l'ordinazione delle donne è esclusa per i motivi dogmatici che si conoscono.
Il documento del cardinale Ratzinger del 31 maggio 2004 sulla collaborazione tra gli uomini e le donne nella Chiesa e nella società ci è sembrato infelice. Non si tratta di collaborazione ma, in modo generale, di sottomissione delle donne agli uomini, ai preti soprattutto. Il documento si sforza in particolare di mostrare perché l'ordinazione delle donne è impossibile. Reagendo su numerosi punti specifici, abbiamo redatto con molto scrupolo una presa di posizione, che abbiamo indirizzato direttamente a Roma, con copia al presidente della Ces. Roma non ci ha risposto; solo il presidente della Ces ha ricevuto una breve risposta di cui alla fine siamo riuscite ad ottenere una copia in seguito alla nostra esplicita richiesta. Ci è stato detto che dal momento che eravamo subordinate alla Ces, dovevamo seguire la via gerarchica. Roma chiedeva anche al presidente della Ces di convincerci del nostro errore.
Nel 2005, abbiamo partecipato attivamente a un gruppo di lavoro ecumenico, che ha pubblicato nel giugno 2006, presso la Theologischern Verlag Zürich (Tvz), una pubblicazione dedicata ai cappellani e al personale che accompagna i genitori in caso di morte perinatale.
Infine, ci siamo impegnate sulle questioni legate all'assistenza nel decesso e all'eutanasia. I vescovi ci hanno rimproverate di arrivare troppo tardi; avevano già redatto un documento sul tema. Pensavamo ad una lettera pastorale che avrebbe trattato la dimensione sociale ed economica della negazione della sofferenza, dell’inva-lidità, del dolore, della vecchiaia e della morte e che avrebbe fatto prendere coscienza della maniera in cui i cristiani possono integrare nella loro vita privata e sociale la sofferenza e le persone che soffrono.
I vescovi non hanno bisogno della Cfe
Dal 2001, il numero dei membri della Cfe è passato a otto, poi a sette nel 2004. Le defunte e le dimissionarie alla fine del mandato non sono state sostituite. Nel corso degli anni, la Ces non ha trovato il tempo di nominare nuovi membri, benché la Commissione avesse proposto dei nomi. Mentre in altri tempi la Ces accettava senz'altro i suggerimenti della Commissione, le persone proposte ora venivano rifiutate. L'avvicendamento alla segreteria generale della Ces nel 2001 è stato per noi una doccia fredda.
Ci aspettavamo dai nuovi membri che condividessero le nostre preoccupazioni sulla Chiesa, che fossero francofone o germanofone e che comprendessero l'altra lingua senza aver bisogno di traduzione (dal momento che i temi affrontati sono difficili, i membri della Commissione devono poter disporre di tempo sufficiente). Nel 2005, eravamo un gruppo di donne di formazione universitaria, impegnate nella Chiesa, in età da nonne, cioè in un'età in cui una donna ha una capacità di azione e un'esperienza considerevoli. Già da un po' di tempo, avevamo preso coscienza del fatto che i vescovi non si aspettavano molto dalla Commissione e che non si interessavano a ciò che facevamo. Volevamo apportare il nostro contributo al dibattito su tutte le questioni della vita ecclesiale e sociale, e rappresentare presso la Ces i punti di vista delle donne e la loro esperienza. Ma non ci è più stato dato il mandato. Il modo in cui la Commissione concepiva il suo lavoro non corrispondeva a quello della Ces.
I nostri diversi lavori non hanno fatto che accentuare il nostro disagio nella Chiesa (per "Chiesa" intendiamo unicamente la Chiesa dei preti, dei vescovi e dell'amministrazione vaticana). Perché crediamo che Gesù Cristo voleva una comunità di fratelli e di sorelle in cui era normale, fin dall'inizio, che le donne partecipassero allo stesso culto, che ricevessero gli stessi sacramenti e che assumessero le stesse responsabilità degli uomini, contrariamente agli usi patriarcali del giudaismo e, più tardi, dell'islam.
La Chiesa ha bisogno di ministri, ha bisogno di diaconi che assumano compiti sociali, di curati e vescovi che guidino le comunità e che amministrino i sacramenti. Speriamo in una Chiesa fraterna, in cui gli uomini e le donne, ognuno con il proprio carisma, possano servire la Chiesa in tutti i suoi ministeri.
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