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OTTO ANNI DI VITTORIE E UNA SCONFITTA. IL VENEZUELA DI CHÁVEZ VISTO DA UN GESUITA

Tratto da: Adista Documenti n° 88 del 15/12/2007

DOC-1937. CARACAS-ADISTA. Sarà più difficile, d’ora in avanti, parlare di un deficit di democrazia in Venezuela: anche i più reazionari fra gli oppositori avranno qualche problema in più a dare del dittatore a Hugo Chávez, dopo il suo sereno riconoscimento della sconfitta al referendum sulla riforma costituzionale del 2 dicembre scorso. Sconfitta, oltretutto, di strettissima misura, 50,7% contro 49,3%: percentuali che, se fossero risultate invertite, avrebbero di sicuro fatto gridare la destra alle frodi e al colpo di Stato. Che l’opposizione mai e poi mai avrebbe accettato di essere sconfitta per un soffio era a tutti più che chiaro: c’era, a testimoniarlo, persino un memorandum della Cia (ampiamente circolato su internet) inviato al direttore Michael Hayden da Michael Middleton Steere dell’ambasciata Usa, denominato “Fase finale dell’Operazione Tenaglia” (Operación Tenaza), un piano predisposto per “impedire il referendum o disconoscerne i risultati” preparando le condizioni per un pronunciamento militare. Non a caso, Chávez ha detto che, in mancanza di una vittoria netta, era “meglio così” (“por ahora”, ha precisato, esprimendo la ferma intenzione di continuare a costruire il socialismo nella misura consentita dall’attuale Costituzione, senza ritirare “una sola virgola” della sua proposta). E, perlomeno dal punto di vista della credibilità democratica, il suo governo esce addirittura rafforzato dalla prima sconfitta in otto anni.

Che però di sconfitta si tratti non può esistere alcun dubbio: su quattro venezuelani che hanno votato per Chávez nel dicembre del 2006, uno si è astenuto al referendum; 3 milioni di voti mancati all’appello. Non è tanto l’opposizione ad aver vinto – appena 200mila voti in più ha incassato rispetto al 2006, e ciò malgrado la martellante propaganda di destra, sostenuta con sconcertante ardore dall’episcopato – quanto il governo ad aver perso. Una sconfitta con molte cause, una delle quali, ma non certo la principale, è stata quella delle defezioni interne: del partito Podemos, di alcuni prestigiosi intellettuali e persino dell’ex ministro dell’Interno, il generale Raúl Isaías Baduel, uno dei grandi protagonisti del processo bolivariano. Nelle analisi degli osservatori, la sconfitta ha sicuramente anche a che vedere anche con i limiti del processo rivoluzionario in corso: una struttura statale burocratica, corrotta e inefficiente; il ruolo di controversi personaggi rapidamente riciclatisi e certamente assai poco interessati alla riforma costituzionale; la presenza, malgrado le incontestabili e fondamentali conquiste sociali, di problemi ancora non risolti, come l’insicurezza sociale, la questione abitativa, la situazione salariale di ampi settori della popolazione; le ambiguità legate alla discussione sul socialismo del XXI secolo (una cosa, afferma lo scrittore uruguayano Raúl Zibechi, è scegliere tra Chávez e la destra, un’altra è optare “per un modello che non si è avuto tempo né volontà di sottoporre a un dibattito aperto”). Limiti, tutti questi, che, come sottolinea lo storico brasiliano Gilberto Maringoni in un’approfondita intervista rilasciata al Correio da Cidadania, “non possono mettere in dubbio i risultati positivi ottenuti in Venezuela” da Chávez, a cui – tramontata, almeno per adesso, la possibilità della rielezione indefinita - rimangono “ancora cinque anni di governo davanti a sé e un potere di convocazione immenso”. “Chávez – afferma – ha dato vita a un governo che, fin qui, ha cambiato faccia all’America Latina. Nell’essenziale, la linea del governo è giusta, nel perseguire la democratizzazione della società, l’ampliamento dei poteri delle fasce popolari e della popolazione indigena, la riduzione della giornata di lavoro, la fine dell’autonomia della Banca Centrale, il divieto del latifondo, il consolidamento dello Stato nel suo carattere pubblico, la realizzazione delle missioni”, con cui il governo ha posto la questione sociale al centro della sua sfera di interessi, in ciò seguito da altri governi latinoamericani.

Di tutto questo, ma in particolare dei difficili rapporti tra Chiesa istituzionale e governo – i vescovi sono stati tra i principali artefici della bocciatura della riforma – Adista ha parlato con p. Numa Molina, incaricato per la spiritualità della Provincia venezuelana dei gesuiti, assistente di un gruppo di laici di spiritualità ignaziana e direttore spirituale del gruppo di studenti gesuiti del corso di filosofia, nonché convinto sostenitore di Chávez e firmatario - insieme, tra gli altri, ai gesuiti Jesús Gazo e Miguel Matos e ai preti Matías Camuñas, Pablo Urquiaga e Bruno Renaud - di un appello alla concordia e al rispetto delle differenze, contro gli eccessi verbali tanto delle istituzioni pubbliche quanto delle autorità religiose, a cui i firmatari contestano “i giudizi scarsamente ponderati, le offese poco eleganti alle più alte istanze della Repubblica e ad altre autorità politiche, i paragoni catastrofisti tra la Repubblica Bolivariana e le dittature, la negazione della legittimità dei processi elettorali democratici basati sulla nostra Costituzione, e il richiamo all’astensione, alla disobbedienza e, persino, alla violenza per porre fine ad una presidenza costituzionale legittimata nelle urne”. Di seguito l’intervista. (claudia fanti)

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