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KENYA: L’ACCORDO C’È, MA NON SI VEDE. E LA SOLUZIONE DELLA CRISI RESTA LONTANA

Tratto da: Adista Notizie n° 23 del 22/03/2008

34350. NAIROBI-ADISTA. Power sharing: È questa la parola d’ordine che, secondo la comunità internazionale, dovrebbe consentire al Kenya di uscire dalla crisi – la più grave mai vissuta dai tempi dell’indipendenza – che ha causato oltre 1.500 vittime e 600mila sfollati. La “condivisione del potere” che è alla base della tregua, firmata il 28 febbraio scorso dai leader rivali Raila Odinga e Mwai Kibaki, prevede l’introduzione nell’ordinamento istituzionale della figura del primo ministro, sconosciuta alla Costituzione keniana. La premiership, costruita ad hoc per Odinga, nasce con il chiaro intento di bilanciare lo strapotere decisionale affidato per Costituzione al presidente in carica. Al premier e ai suoi due vice (uno appartenente all’Odm di Odinga (Movimento democratico dell’arancia - Odm, nell’acronimo inglese), l’altro al Pnu (il Partito di Unità Nazionale di Kibaki) è conferita infatti “l’autorità di coordinare e controllare l’attività di governo”. Ad esempio, se il presidente intende licenziare un ministro, non può farlo senza l’autorizzazione scritta del primo ministro. Una sorta di accordo “di coabitazione” che prevede inoltre la spartizione dei ministeri e degli incarichi secondo il peso politico (praticamente paritario) dei due schieramenti. La divisione “a metà” del potere - che oggi trova l’accordo dei due contendenti, ma anche e soprattutto delle autorità internazionali - dovrebbe garantire stabilità e pacificazione sociale, ma rischia di creare una dannosa impasse nel processo di riforma, soprattutto in merito alle questioni scottanti, che sono alla base del conflitto tra kikuyu e luo (ad esempio, la distribuzione delle terre e delle risorse).

Eppure, il sofferto lavoro di mediazione condotto da Kofi Annan non poteva ottenere risultati migliori. Infatti, nonostante l’allarme brogli lanciato da più settori del Paese e dagli osservatori stranieri in occasione delle elezioni del 27 dicembre scorso, il presidente “eletto” Kibaki non ha mai messo in discussione la sua nomina. E questo aveva scatenato la violenza sulle strade del Kenya, riaccendendo antichi dissapori tra le popolazioni povere luo e kikuyu nella Rift Valley e negli slum adiacenti alle grandi città. Una lunga tradizione politica, avviata già ai tempi di Kenyatta (leader della lotta contro il dominio coloniale britannico e primo presidente del Kenya indipendente), ha visto infatti un eccessivo sbilanciamento a favore dell’etnia kikuyu, favorita nella dialettica politico-economica e nella divisione delle terre. Il tutto sotto gli occhi interessati dei Paesi occidentali, in testa gli Stati Uniti che in passato hanno sempre appoggiato Kibaki, mentre oggi preferiscono optare per la politica del power sharing. “Sono state le pesanti interferenze esterne – denuncia il comboniano p. Renato Kizito Sesana su Agorà di Avvenire, il 17/2 scorso – che hanno reso possibile l’esplodere della violenza. Ciò che è avvenuto in Kenya va visto nel contesto più vasto di una nuova corsa all’Africa, alle sue ricchezze. In sintesi, fino pochi anni fa la competizione era fra Usa e Francia, ed era giocata in sordina, con toni da finti gentiluomini. Adesso la Francia è rimasta indietro e la Cina sta emergendo come una competitrice”. In definitiva, gli Usa avrebbero benedetto l’elezione di Kibaki anche in queste elezioni se il presidente non avesse accolto le avances commerciali della Cina.

Nonostante l’accordo, la situazione nel Paese resta comunque tesa. Molte sono le voci che si levano in favore di una ricostruzione non solo politica, ma anche di convivenza sociale, a partire dai rapporti tra i diversi gruppi etnici. Secondo il dottor Unnikrishnan (il manifesto, 29/2) - medico di ActionAid International - “ci sono stati molti casi di violenza specialmente diretta a donne e ragazze, un assortimento di orrori che include lo stupro. Sono ferite profonde e ci vorrà tempo per tornare alla normalità. E se è importante provvedere cibo, acqua, riparo e tutti i concreti bisogni, sarà necessario anche ricostruire il benessere emotivo. La violenza ha lasciato profonde divisioni tra le comunità, riacceso vecchi odi, eroso la fiducia reciproca tra le molte etnie del Kenya. Per ricostruire la pace è necessario coinvolgere le persone di ogni comunità”. Occorre certamente superare quell’“odio atavico” che permane come sostrato culturale di una popolazione lacerata, ma che da solo non spiega quanto è accaduto in Kenya. “Probabilmente - ricordava un editoriale di Nigrizia il 4/2 - non è molto lontano dal vero chi afferma che le reali ‘tribù’ in questo Paese sono solo due: quella dei poveri e quella dei ricchi. Dualismo che disegna un tessuto sociale disgregato. Una spaccatura profonda”.

In questo contesto la Chiesa cattolica, secondo il superiore generale dei missionari della Consolata p. Franco Cellana, si è molto prodigata in sostegno della popolazione vittima della crisi. Un sostegno certamente materiale, ma anche spirituale e sociale. “Per oltre due mesi abbiamo lanciato appelli e inviato messaggi di riconciliazione ai sostenitori delle due fazioni. Ogni giorno ci siamo riuniti in preghiera nelle parrocchie e abbiamo sensibilizzato la popolazione sull’importanza della pace”, Inoltre, prosegue il missionario, “centinaia di volontari si sono prodigati nell’aiutare gli sfollati, i bambini, le donne e gli anziani”. Di opinione opposta Henry Makory, direttore dell’agenzia Cisa (Catholic Information Service for Africa), che denuncia la crisi di credibilità e le contraddizioni dei vescovi keniani di fronte al dramma degli ultimi due mesi. “In seguito alla peggiore crisi politica del Kenya - afferma in un editoriale del Cisa del 12 marzo scorso - molta gente esprime dubbi sulla credibilità della Chiesa come fattore di giustizia sociale”. Makory attacca inoltre la posizione politica dalla Conferenza episcopale keniana (Kec) e i rapporti sin troppo cordiali con il passato governo Kibaki: “Qualche settimana fa - scrive - un’agenzia riportava la notizia di alcuni preti della diocesi di Hama Bayche, secondo i quali la posizione politica del card. Njue aveva complicato il regolare svolgimento dei loro incarichi. Una velata dichiarazione di sfiducia nei confronti del cardinale presidente della Kec”. (giampaolo petrucci)

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