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Da parole vere un mondo migliore

- Mi sta a cuore

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 6 del 17/01/2009

Difficilissimo scegliere tra le tante cose che mi stanno a cuore, o – come a molti di noi, credo – mi pesano sul cuore attualmente: la riscoperta del nesso fede-laicità; la nascita di luoghi di formazione ed espressione di opinione pubblica nella chiesa cattolica e di ascolto del sensus fidelium da parte delle gerarchie ecclesiastiche; la liceità di critiche e pluralismo nella chiesa cattolica; la ripresa di una ricerca di modelli alternativi di società (il ‘Cercate ancora’ di Claudio Napoleoni); il ruolo delle donne nella chiesa cattolica; una ripresa della memoria storica del nostro disgraziato paese; la deriva etica e di religione civile del cristianesimo; la lotta per una immagine non idolatrica di Dio, e tante altre. Ho scelto le parole, che sembrano la cosa più leggera e invece a mio parere sono sempre più pesanti. Ormai tutti, in piccola o grande misura, siamo sudditi di tale costellazione linguistica: una gabbia trasparente, ma di vetro spessissimo; una fonte continua di inquinamento del pensiero.

Il tempo di Natale, in cui i cristiani contemplano e annunciano la Parola di Dio incarnata in un essere umano, e insieme l’attualità di una crisi economica e finanziaria che minaccia la vita di milioni di persone, stimolano a una riflessione sulle parole che compongono i segnali prevalenti della comunicazione culturale e sociale attuale. “Le parole sono pietre” è il titolo di un noto libro di Carlo Levi. Sì, le parole sono pietre: possono costruire case, case di pensieri, di significati, di progetti in cui l’umanità di ognuno e di tutti trovi adeguata dimora; possono costruire preziosi ponti di comunicazione; ma possono anche essere usate come arma, per lapidare e uccidere. Questo vale per tutte le parole, in quanto tali. Ma poi occorre mettere a fuoco bene il significato di ogni parola. La parola è efficace. Non solo la parola di Dio, ma anche quella umana. Nel momento stesso in cui è pronunciata non solo ‘dice’, ma opera qualcosa: ha un valore non solo informativo, bensì performativo. Le parole che usiamo non sono segnali innocenti e neutrali, bensì veicoli che portano con sé e diffondono una visione e progetto di mondo. Rivedere criticamente le parole che immettiamo nella circolazione culturale e politica è specialmente urgente oggi, quando vediamo circolare molte ‘parole’ (verbali o di immagine) ingannevoli come un cavallo di Troia. Tra esse, in particolare: modernizzazione, identità, autonomie locali, globalizzazione, mercato, azienda, competitività, consumi, crescita economica.

Collegandole, emerge l’assunto che regge il nostro mondo: il rapporto economico del dare-avere materiale, il criterio di valore identificato nella logica aziendale del profitto; il dominio del mercato che trasforma tutto in ‘merce’, in ‘cosa’, facile a globalizzarsi: vita e lavoro umano; scuole, ospedali, servizi, cultura, risorse naturali. Ma il ‘dono’, ricevuto e fatto, è indispensabile a far sì che l’uomo sia umano. Il contraccolpo di tale destituzione della dignità di essere creatori di senso e di relazioni gratuite è l’esplodere di culture identitarie (persino in ambito religioso) e localistiche, chiuse e aggressive.

Perché un altro mondo sia possibile, cominciamo a vigilare sulle parole e ricominciamo da “giustizia e diritto” che sono la base del trono di Dio (Salmo 89,15).

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