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La chiesa: tra amore e agonia

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 48 del 02/05/2009

“Non mi riconosco più in questa chiesa”. Di fronte a questa drammatica affermazione, che si sente ripetere con una certa frequenza, è necessario assumere un atteggiamento di grande attenzione e comprensione; ma anche offrire una risposta non banale e tantomeno autoritaria.

Attenzione e comprensione perché le ragioni di disagio ci sono, e sono diffuse. Chi parla così esprime non solo una protesta, ma anche la speranza di una chiesa più bella, più fedele al Vangelo e agli uomini.

Ma serve anche una risposta non banale. Non una risposta prefabbricata, ma una consapevolezza da costruire con pazienza e amore tutti insieme. Lungo la storia tante persone hanno sofferto perché la chiesa non si presentava con le parole e i gesti più limpidi e opportuni. Molti hanno scelto di lasciarla in silenzio, altri di combatterla, altri di riformarla.

Un punto di partenza è la consapevolezza che “noi siamo chiesa”. Dunque se noi ci sforziamo di essere migliori miglioriamo la chiesa. E l’essere migliori non dipende tanto dalle idee più giuste (chi può dirlo?) quanto da un amore più grande. Un altro punto di partenza è che errori, sconfitte e infedeltà hanno segnato tutti i secoli della storia cristiana, che tuttavia è stata anche una storia di santità, eroismi, testimonianze evangeliche. In questi giorni tutti celebrano don Primo Mazzolari. Ma conviene ricordare quante lacrime ha pianto nella canonica di Bozzolo quando l’avevano ridotto al silenzio e solo un coraggioso libraio di Brescia, Vittorio Gatti, stampava i suoi libri che oggi riempiono le librerie. Eppure don Primo aveva resistito e non aveva mai smesso di amare la Chiesa. Henri de Lubac, grande teologo anche lui emarginato (e poi… cardinale), nelle Meditazioni sulla Chiesa scriveva: “Certo se nella Chiesa tutti fossero quello che dovrebbero essere, è chiaro che il Regno di Dio progredirebbe con un altro ritmo…”. Ma “non ricominciamo neppure a sognare una chiesa trionfante. Il suo maestro non le ha promesso successi strepitosi e crescenti… essa deve essere come il Cristo in agonia fino alla fine del mondo”.

Insomma, proprio perché “noi siamo chiesa”, è inevitabile una sofferenza per la sua e nostra insufficienza; ma è anche possibile un impegno, una “lotta quotidiana” perché la vita della chiesa sia meno inadeguata e più evangelica. È in questo spirito che molti vivono e lavorano nelle strutture e istituzioni della chiesa ed anche nell’anonimato delle esperienze personali. La Chiesa vera va ben al di là di quel che si percepisce dai media e dai documenti ufficiali. In questi mesi, in questi giorni si moltiplicano nuove iniziative di riflessione, confronto di esperienze (per esempio l’incontro di Firenze il 16 maggio intitolato Il Vangelo che abbiamo ricevuto, l’iniziativa Nostro ’58 di Luigi Pedrazzi, il Chicco di senape in Piemonte, i Viandanti, i Galilei…) che in larga misura nascono proprio dal disagio per l’attuale momento e per il rischio di uno “scisma non dichiarato”, e dal desiderio di ricostruire o rafforzare lo spirito di comunione e di partecipazione alla vita ecclesiale nello spirito del vangelo e del concilio Vaticano II.

E qui arriviamo al punto decisivo: per superare le tentazioni di abbandono o di polemica è necessario che nella chiesa e nei rapporti ecumenici si diffonda di più uno stile di dialogo e di comunione, a cominciare dalla “gerarchia”. È necessario che dalle parrocchie in su tornino (o comincino) a funzionare i consigli pastorali, i sinodi, luoghi di ascolto e di confronto. Non è augurabile: è necessario che i credenti laici si sentano rispettati, riconosciuti, ascoltati; e possano così costruire insieme a preti, vescovi e suore il volto amorevole di una chiesa in cui riconoscersi. Ed è necessario che nasca una mentalità, una cultura che don Tonino Bello chiamava “convivialità delle differenze” perché nella Chiesa – circumdata varietate, diceva padre Balducci – possono esserci anche molte idee e stili differenti che sono spesso una ricchezza condivisa. E quando sono una difficoltà costituiscono l’occasione di esercitare il discernimento, la comprensione reciproca e l’amore vicendevole, che è poi il cuore dell’esperienza cristiana. “Vedete come si amano!” è infatti il segno per riconoscere i cristiani. Se no, non è Chiesa. (ab)

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