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Betlemme accoglie il Papa come “amico dei rifugiati”

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 57 del 23/05/2009

È la chiave, simbolo per i palestinesi del diritto e della speranza di tornare nelle case perse con la guerra del 1948, a dominare in maniera quasi ossessiva la scenografia allestita per la visita di papa Benedetto XVI nel campo profughi di Aida: una enorme chiave in acciaio lunga dieci metri sormonta infatti l’arco a forma di serratura che segna l’ingresso al campo e che Ratzinger attraversa in papa-mobile; dieci chiavi nere le tengono in mano i bambini che ballano per il papa al suono di musiche tradizionali nel cortile della scuola gestita dall’Onu ad Aida, dove avviene la cerimonia ufficiale; ed è naturalmente a forma di chiave il ciondolo che gli abitanti del campo consegnano al pontefice come regalo. Tutt’intorno, poster e slogan scritti sui muri rimandano ancora al ‘diritto al ritorno’, e ricordano – citando anche le parole di Giovanni Paolo II in occasione del suo viaggio in Terra Santa nel 2000 – l’illegalità dell’occupazione israeliana e la risoluzione Onu 194 che la condanna.

Nelle dieci ore loro concesse dall’organizzazione del viaggio papale, i palestinesi cercano di sfruttare al massimo la visibilità mondiale offerta dalla presenza del pontefice e spingono al massimo sul pedale dell’emozione. D’altra parte, la presenza imponente del muro israeliano, nove metri di lastre di cemento che si stagliano appena dietro il palco sul quale parlano il papa e il presidente Abu Mazen, non può essere ignorata e sarà quella – la veste bianca del pontefice sullo sfondo del muro al tramonto – l’immagine che darà il tono all’intera visita di Ratzinger.

Nel pur breve spazio riservato ai Territori, papa Ratzinger con i suoi cinque discorsi riesce a toccare in termini inaspettatamente limpidi tutti i temi che stanno a cuore ai palestinesi: dall’affermazione esplicita che “la Santa Sede appoggia il diritto del popolo (palestinese, ndr) ad una sovrana patria Palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti” alla menzione di Gaza “martoriata a motivo della guerra”, dal sostegno alle “famiglie divise a causa di imprigionamento di membri della famiglia o di restrizioni alla libertà di movimento” fino alla condanna del “tragico” muro israeliano e all’affermazione che “benché i muri si possano con facilità costruire, noi tutti sappiamo che essi non durano per sempre. Possono essere abbattuti”.

Certo, gli abitanti del campo non possono non notare l’atteggiamento impacciato, privo di calore del pontefice, che si limita a stringere la mano ai bambini che lo vengono a salutare invece di accarezzarli e alle orecchie palestinesi mancano le parole “diritto al ritorno”. Ma il pontefice parla di ritorno nella terra degli “antenati” e i profughi di Aida ascoltano attentamente le sue parole, tradotte in arabo frase per frase, e alla fine le salutano con un applauso misurato ma sentito.

Quando papa Ratzinger e il seguito papale attraversano a sera il muro e rientrano in Israele – senza che a nessuno, tranne che al papa stesso, sia risparmiato di scendere dall’auto e di superare i controlli a piedi – si può dare ragione al parroco di Gerusalemme, p. Ibrahim Faltas, che parla di un “popolo palestinese conquistato dal papa” e di un pontefice “amico dei rifugiati”.

Non altrettanto successo, invece, hanno riscosso le parole del pontefice dall’altra parte del muro. Malgrado il tappeto rosso che il governo ha steso ai suoi piedi, che all’indomani della guerra a Gaza aveva bisogno del ritorno di immagine e della legittimazione internazionale portate da una visita papale, la società israeliana ha accolto con indifferenza, se non con freddezza, l’arrivo del papa. La stampa, sia quella ‘colta’ sia quella popolare, nei giorni della sua visita e in quelli immediatamente precedenti si è riempita di rievocazioni del passato nella Hitlerjugend di Ratzinger. Agli occhi degli israeliani, l’elenco delle ‘colpe’ del pontefice era lunga: la riabilitazione di Williamson, la liberalizzazione della messa in latino con la sua preghiera pro conversione judaeorum, il processo di beatificazione di Pio XII e – soprattutto – il semplice fatto di essere tedesco, e di aver vestito, seppur forzatamente, la divisa della Wehrmacht. Da lui, ci si aspettava se non una esplicita e completa richiesta di scuse, un’assunzione di responsabilità e un messaggio chiaro di condanna dell’antisemitismo.

Naturalmente, Ratzinger non ha fatto mancare agli israeliani questi concetti chiave: “Sfortunatamente, l’antisemitismo continua a sollevare la sua ripugnante testa in molte parti del mondo. Questo è totalmente inaccettabile”, ha affermato appena atterrato all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Ma nel momento più atteso, in quello dal più alto contenuto simbolico, ovvero durante la visita al memoriale dell’Olocausto Yad Vashem, il papa tedesco ha scelto di volare alto, con un discorso evocativo che si concentra sul valore dei “nomi” e sull’impossibilità, per gli uomini, di cancellarli agli occhi di Dio. Sono parole – le uniche, probabilmente di questo viaggio – che portano inconfondibilmente l’impronta personale del pontefice, il segno del suo pensiero e del suo stile. E che tuttavia, agli israeliani, sono suonate “tiepide”, “astratte” e intellettuali; avrebbero preferito contenuti più ‘terreni’ ma più espliciti. E così, nel gioco del ‘tirare il papa dalla propria parte’ che ha segnato sin dall’inizio questo viaggio in una terra di divisioni, il maggior successo sembrano per ora averlo ottenuto i palestinesi.

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