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È IL "TEMPO PER PARLARE"!

Tratto da: Adista Documenti n° 77 del 11/07/2009

Il libro del Qoélet ci insegna che “sotto il cielo” c’è il tempo idoneo per ogni cosa (cfr 3,1-8). Qui, in particolare, si vuole mettere in rilievo il richiamo al “tempo per parlare”.

Il giusto equilibrio fra silenzio e parola è parte integrante di una condotta umanamente saggia. Riguarda i rapporti interpersonali e quelli sociali, politici, istituzionali. La parola, elemento distintivo dell’uomo, ha una straordinaria varietà di modulazioni, che ci consentono di esprimere l’intera gamma dei nostri pensieri, sentimenti, emozioni. Tramite la parola si può insegnare, sostenere, incoraggiare, lenire il dolore, trasmettere vicinanza, comunicare tenerezza, ma anche ammonire, correggere, dissentire, riprovare, condannare.

Ecco, quando consideriamo le recenti vicende nelle quali è stato direttamente chiamato in causa il nostro presidente del Consiglio (sentenza di condanna in primo grado per corruzione dell’avvocato Mills, caso delle cosiddette veline, ragazza napoletana, feste in residenze di sua proprietà), ci persuadiamo che è il tempo non del silenzio, ma della parola decisa e inequivoca.

Contro una lettura minimizzante dei fatti citati, riscontriamo piuttosto il manifestarsi di questioni di singolare rilievo culturale, etico e politico, che ci interpellano e che esigono da noi un giudizio non evasivo. Il quadro si fa ancora più preoccupante, se consideriamo gli episodi in questione nel contesto di alcune scelte strategiche dell’at-tuale maggioranza governativa, a seguito delle quali risulta palese il rischio d’intaccare regole ed equilibri indispensabili per il corretto funzionamento della nostra democrazia. Si pensi, per esempio: alla concezione del partito, strumento cardine di un sistema democratico, come semplice “appendice” della volontà di un “capo” assoluto; alla distorsione dei meccanismi di reclutamento del personale politico; alla negligenza ricorrente circa il rispetto della di-visione dei poteri costituzionali; al depotenziamento del principio proprio dello Stato di diritto, secondo il quale la legge è uguale per tutti; al conflitto d’interessi macroscopico nel campo televisivo (emblematiche, in proposito, anche le ultime nomine Rai).

In tempi di debole senso del “bene comune”, ai nostri governanti e amministratori abbiamo imparato (purtroppo!) a non chiedere molto, ma almeno un livello minimo di decenza etica e istituzionale la pretendiamo, a motivo del solenne impegno da essi assunto di onorare la Carta costituzionale e i suoi princìpi-valori d’ispirazione.

Fra i punti qualificanti di un comportamento corretto degli uomini delle istituzioni in regime democratico vi è l’obbligo di dire la verità ai cittadini. In caso contrario, s’incrina il rapporto fiduciario con gli elettori e viene inquinato il tessuto della vita civile.

Riguardo alle suddette vicende riguardanti il presidente del Consiglio, abbiamo assistito, da parte del medesimo, a un’evidente sequenza di reticenze, contraddizioni, vere e proprie bugie. I tentativi di addomesticare i diversi casi che l’hanno chiamato in causa sono risultati inefficaci, quando non controproducenti. Vale proprio la pena di dire, con l’antico proverbio, che anche questa volta il rammendo è risultato peggiore del buco.

Il capo del governo è vincolato, come, del resto, tutte le altre figure istituzionali, al dovere di dire la verità al Paese. Se contravviene a simile regola elementare, menoma il patto di lealtà con il popolo e, di conseguenza, depotenzia la legittimità, morale innanzitutto, di ricoprire l’alto incarico. A tale proposito, nelle democrazie anglosassoni (almeno per questo aspetto, più mature della nostra) non si guarda in faccia a nessuno. Fosse anche il massimo esponente dello Stato, se mente, o dà le dimissioni o va soggetto a impeachment. I casi Nixon e Clinton negli Stati Uniti sono a tutti noti. Da noi invece non succede niente (o quasi). Ma è mai possibile che, al di là degli orientamenti politici di ciascuno, non si colga la gravità in sé dei comportamenti (alcuni dei quali addirittura di rilevanza penale) sopra denunciati? A tanto è giunto il livello di assuefazione degli italiani?   

Il tentativo di rubricare come fatto “privato”, dunque sottratto alla sfera della responsabilità “pubblica”, buona parte delle ultime vicende nelle quali è implicato il presidente del Consiglio risulta specioso. Non vogliamo certo intaccare la sacrosanta distinzione fra le due sfere, “privata” e “pubblica”, appunto: in un sistema democratico la prima va debitamente tutelata per assicurare la legittima privacy di ogni cittadino, garanzia, fra l’altro, di rispetto della sua libertà e dignità. Ma nel caso in esame la questione si presenta con connotati particolari. Come tutti i cittadini, anche le maggiori cariche istituzionali hanno il sacrosanto diritto alla privacy, però quest’ultima non può mai essere invocata quale paravento rispetto al dovere della responsabilità, della coerenza e della trasparenza nel modo di agire. Non intendiamo fare del moralismo: semplicemente crediamo sia tempo di ribadire ad alta voce l’Abc, cioè la grammatica elementare del comportamento dell’uomo politico in regime di democrazia.

Le vicende in discussione rivelano, da parte del capo del governo, una visione e gestione disinvolte del proprio ruolo pubblico, al quale - conviene ricordarlo - è intrinsecamente connesso un elevato grado di potere. Un presidente “ricattabile” costituisce un problema serio per l’in-tero Paese, oltre che causa di discredito istituzionale nei rapporti con l’estero. Di tutto ciò si ha eco anche su prestigiosi organi di stampa internazionali. È difficile pensare che giornali stranieri di prima fila siano asserviti a un disegno “eversivo” predisposto dalla (scombinata) sinistra di casa nostra! Ma tant’è!

Circa l’inderogabile necessità della coerenza fra parole e stile di vita degli uomini politici (e il richiamo ha preso spunto proprio dai comportamenti censurabili del presidente del Consiglio), sono intervenute, seppur con accenti diversi, importanti testate del giornalismo cattolico (il quotidiano Avvenire, il settimanale Famiglia Cristiana). Si tratta di un’esigenza autorevolmente riproposta, per i delicati aspetti etici coinvolti, da esponenti dell’episcopato italiano.

Insomma, abbiamo molto da riflettere sugli ultimi casi che hanno visto protagonista il capo del governo. Lo ribadiamo a chiare lettere: non è, come qualcuno vuole far credere, una semplice vicenda di gossip. Sono in gioco, invece, questioni serie, che riguardano il ruolo e le responsabilità istituzionale, politica e (perché no?) anche educativa di una così alta carica dello Stato. Di conseguenza, è in gioco la qualità stessa della democrazia nel nostro Paese. Ecco perché non risulta ammissibile il silenzio: piuttosto è il “tempo per parlare”, di dire ad alta voce che non possiamo e non vogliamo rassegnarci a deprimenti spettacoli da basso impero. Pur nella consapevolezza dei suoi limiti, “Città dell’uo-mo”, l’associazione fondata da Giuseppe Lazzati e impegnata nel promuovere una cultura politica fedele alla visione cristiana dell’uomo e ai valori della Costituzione, avverte il dovere di levare alta la voce della denuncia.

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