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L’Africa, il Sinodo e noi

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 104 del 17/10/2009

Uno dei primi interventi al Sinodo africano, quello di mons. Lucas Abadamloora, presidente della conferenza episcopale del Ghana, ha avuto una nota di amarezza particolare. Riferendosi a come vengono accolti molti vescovi, sacerdoti e laici africani quando si recano fuori dal continente, ha osservato: “La nostra esperienza della Chiesa in Europa e in America, e anche quella di alcuni fratelli vescovi e sacerdoti, ci fa pensare di essere membri di serie B della famiglia della Chiesa, o di appartenere ad una Chiesa diversa. Si è creata l’impressione che noi abbiamo bisogno degli altri, ma non gli altri di noi”. E ha aggiunto: “La teoria della fraternità e della comunità è forte, ma la pratica è debole”.

Forse questo può apparire un tema minore, ma non credo lo sia. Abbiamo bisogno, noi europei, dell’Africa e degli africani, del loro cristianesimo e della loro spiritualità?

Per alcuni decenni del secolo scorso, nell’epoca del colonialismo, il nostro atteggiamento prevalente era quello di chi si considera immensamente superiore, e si sente autorizzato a dominare, ad abusare, a sfruttare. Nei casi migliori si era paternalisti. Alcuni, certo, erano capaci di amore e rispetto sinceri. Negli anni ’60 e ’70 si è respirata un’aria nuova, portata dalle indipendenze africane, da alcune grandi figure di leader anche cattolici (come Senghor), dal Vaticano II, dalla Populorum Progressio, dal migliore terzomondismo (né con gli Usa né con Mosca), dall’età d’oro del volontariato internazionale e dalla buona accoglienza data agli studenti africani che iniziavano a venire a studiare nelle nostre università.

Poi il cielo si è rannuvolato. L’autosviluppo dei paesi africani si è quasi ovunque inceppato. Il treno dell’economia internazionale ha tirato per la sua strada lasciando il vagone Africa su un binario morto. Le relazioni economiche con l’Africa si sono espresse soprattutto nel sostegno alle multinazionali che hanno cercato le vie brevi per prendere il massimo e dare il minimo (chiudendo gli occhi sulle ingiustizie più palesi o addirittura alimentandole per interesse). La cooperazione internazionale è andata riducendosi al lumicino. Persino il volontariato si è un po’ burocratizzato. Gli studenti africani hanno trovato sempre più ostacoli ad avere il visto per l’ Italia. E, con l’inizio dell’immigrazione, ha cominciato a crescere, nelle nostre istituzioni e poi anche nelle coscienze di molti, una diffidenza sempre maggiore (del resto, l’immigrazione è questione di cui è istituzionalmente responsabile il ministero degli Interni, e dunque le questure e i commissariati di polizia).

Oggi si fanno i conti con non pochi episodi di razzismo. Si attuano i respingimenti. Si persegue come un reato l’ingresso in Italia di chi cerca di sfuggire alla violenza o alla fame. Avere la cittadinanza è quasi un sogno. Trovare un lavoro adeguato, per un africano con la laurea, è praticamente impossibile. Insomma, quantunque le “giornate per l’Africa” si siano andate moltiplicando da qualche anno a questa parte (e non è certo un male), e nonostante il lavoro sotterraneo di tanti piccoli gruppi tenaci e coraggiosi, l’idea della serie B c’è e come. Secondo mons. Abadamloora c’è anche nella Chiesa.

Eppure, quando Benedetto XVI, aprendo il Sinodo, ha detto che “l’Africa rappresenta un immenso polmone spirituale, per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza”, osservando che è proprio di questo che l’umanità ha bisogno “ancor più che delle materie prime”, ha detto una cosa che sappiamo giusta.

Penso a Moravia, che certo un po’ da snob, quando si sentiva troppo inquieto prendeva l’aereo e andava a rasserenarsi in un paese d’Africa. O a Paolo Giuntella, che preferiva le messe nella “chiesa dei congolesi” a quelle nella sua parrocchia perché tanto più vitali. E penso a una famiglia di un villaggio del Nord Kivu, di cui ho conosciuto i ragazzi: padre maestro di scuola primaria, morto anzitempo, madre analfabeta. Un’educazione straordinaria. La sera, senza luce in casa, la madre raccontava il vangelo e il rispetto per gli altri.

“Ma anche questo ‘polmone’ può ammalarsi”, ha ancora detto papa Ratzinger nella sua omelia. E ne ha dato la colpa al contagio con il materialismo pratico dell’Occidente e alla diffusione di un certo fondamentalismo religioso, mischiato, egli dice, con interessi politici ed economici.

Per questa seconda questione, credo che le chiese d’Africa debbano interrogarsi su come farsi più vicine al popolo (e meno al potere dei governi), più articolate nelle comunità di base, più partecipate dai laici e in particolare dalle donne.

Quanto al “contagio” con il materialismo dell’Occidente, il punto è che dobbiamo ripensare sul serio che cosa è sviluppo, che cosa è benessere, e, accostando con più attenzione la genuina spiritualità di cui l’Africa è ricca, capire come possiamo ricostruirne i percorsi nei nostri contesti e, al tempo stesso, come impegnarci per impedire che le storture del nostro sistema di sviluppo continuino a ferire le popolazioni africane, comprimendone i diritti umani e disseccandone i valori dello spirito.

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