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Carcere e dignità

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 74 del 15/10/2011

Quando si pensa al carcere siamo portati a far emergere la sua caratteristica relativa alla ‘giustizia’, rilevandone una visione piuttosto istituzionale staccata dalla relazione verso la persona. La vita per ogni uomo è un percorso non predeterminato, ma in continua evoluzione, a seconda delle proprie scelte più o meno consapevolmente giuste o sbagliate. Nessuno può dire che la propria vita si svolga a tempo indeterminato riguardo alle scelte che quotidianamente opera. Nessuno può dire di rimanere per tutta la vita sulla retta via, né di rimanere per sempre sulla via sbagliata.

Il Papa, parlando ai giovani, durante il viaggio in Germania, ha detto queste illuminate parole: «Cristo non si interessa tanto a quante volte vacillate e cadete, bensì a quante volte vi rialzate».

Prima del papa, Gesù, inaugurando la sua predicazione nella sinagoga di Nazareth affermò – citando le parole del profeta Isaia – di essere stato mandato per proclamare ai prigionieri la liberazione e per rimettere in libertà gli oppressi. Concludendo poi con queste sue parole: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura!» (Lc 4,16-21).

Uno sguardo all’oggi della Chiesa ci permette di notare – sul tema del ‘carcere’ e non solo – un traghettamento troppo silenzioso di questo messaggio evangelico.

È necessario abbattere le “sbarre” delle carceri nel loro simbolismo costrittivo – istituzionale e far emergere invece la dignità di ogni persona, quella dignità assai spesso umiliata dietro quelle “sbarre”.

Sappiamo bene che non sono i luoghi più o meno sofferti o cupi a determinare e condizionare la dignità che ogni persona racchiude in sé, nel suo stesso essere. È la consapevolezza invece della propria dignità accolta e rispettata che permette di far sopravvivere quel senso di libertà in virtù del quale le “sbarre” è come se non esistessero.

Il carcere anche come semplice esigenza di giustizia può divenire un luogo e un tempo di “umanità” se continuiamo a credere nella forza dell’amore e nella potenza trasformatrice del perdono. Se abbandonassimo i frettolosi pregiudizi e i giudizi di sapore definitivo! Se buttassimo via le nostre maschere che ci fanno sentire in diritto di «scagliare per primi la pietra» (Gv 8,7)!

Per un tipico paradosso da vangelo, possiamo affermare che non tutti coloro che si trovano in carcere sono gli unici e veri colpevoli della società, né tutti coloro che si trovano in libertà sono totalmente innocenti!

La Chiesa e i cristiani dovrebbero esprimere – come fece Gesù nella sinagoga di Nazareth – il loro ruolo ‘profetico’ ed essere l’oggi di Dio in tutte le situazioni apparentemente buie e dolorose e illuminare tutto attorno con il comandamento dell’amore, mettendo al centro la “persona” con la sua dignità, la quale – anche se offuscata e deturpata – nessun carcere riuscirà mai a cancellare!

Un grato riconoscimento all’opera preziosa di umanizzazione del carcere svolta dagli educatori, dai cappellani, dai volontari e da tutti gli operatori interni di buona volontà: sono loro a infondere il respiro “interiore” di libertà in ogni persona che in carcere entra in relazione con loro.

Il Signore dice: «Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (Isaia 43,4).

* Direttore della Caritas di Ostia

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