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NUOVO PASSO AVANTI PER LA “PATRIA GRANDE”: NASCE LA COMUNITÀ DEGLI STATI LATINOAMERICANI E CARAIBICI

Tratto da: Adista Notizie n° 93 del 17/12/2011

36443. CARACAS-ADISTA. Oltre un secolo è trascorso da quando - era il 1904 - il presidente Roosevelt rivendicava, a corollario della Dottrina Monroe del 1823 (sintetizzata nella celebre frase “l’America agli americani”) il diritto degli Usa a intervenire in qualsiasi nazione latinoamericana che agisse in modo “non corretto” in politica interna o estera: un lungo, interminabile periodo in cui gli Stati Uniti hanno davvero ricoperto «l’America di miserie in nome della libertà», come profetizzava nel 1829 il libertador Simón Bolívar. Alla fine, però, a 200 anni dall’indipendenza e a 185 dal fallito tentativo di Bolívar di unire le ex colonie spagnole e portoghesi, per l’America indo-afro-latinoamericana può iniziare una nuova fase della sua storia: con la nascita della Celac, la Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici (unici esclusi Canada e Stati Uniti), si apre davvero per la Patria Grande la possibilità di diventare, come ha dichiarato il presidente venezuelano Hugo Chávez, «un centro di potere politico mondiale indipendente, non soggetto a potenza né a potere alcuno». Le condizioni ci sono tutte: la regione - 20,5 milioni di chilometri quadrati di superficie e 600 milioni di abitanti - vanta la maggiore produzione ed esportazione mondiale di alimenti, conta sulle più grandi riserve di petrolio del mondo e su una delle più grandi di gas e possiede il 30% delle fonti d’acqua dolce del pianeta. In un momento in cui l’Europa si trova di fronte al fantasma della recessione (imboccando una strada di tagli indiscriminati già percorsa con esiti catastrofici proprio dall’America Latina), la Celac tenta la via di un’integrazione regionale di carattere politico e non solo commerciale ed economico, diretta dagli Stati e non dai mercati e tesa a realizzare, come si legge nella Dichiarazione di Caracas, «le nostre legittime aspirazioni di inclusione sociale, crescita con equità e sviluppo sostenibile», per contribuire così al «consolidamento di un mondo pluripolare e democratico, giusto ed equilibrato, e in pace, libero dal flagello del colonialismo e dell’occupazione militare».

Il nuovo organismo, il cui primo vertice si è svolto il 2 e 3 dicembre a Caracas con la partecipazione di 30 presidenti, un vicepresidente e due ministri degli Esteri dei 33 Paesi della regione, può realmente costituire per le nazioni a sud del Rio Bravo (confine tra Messico e Usa) uno strumento di integrazione, cooperazione, risoluzione dei conflitti che non ha di certo mai potuto fornire l’Organizzazione degli Stati Americani (Oea) – significativamente ribattezzata in America Latina come “Ministero delle colonie Usa” – con la sua storia di legittimazione di invasioni e colpi di Stato. La nascita della Celac, tuttavia, non significa ancora la scomparsa della pur screditatissima e sempre più inoperante Oea, per quanto da più parti si auspichi che il nuovo organismo finisca per mandare definitivamente in cantina l’antico.

Del resto, in contrapposizione al disegno di assoggettamento del Continente perseguito dagli Stati Uniti, il sogno della Patria Grande Latinoamericana aveva già alimentato diversi tentativi di integrazione, dai due blocchi regionali della Comunità Andina di Nazioni e del Mercosur a progetti di integrazione più avanzata come quello tradottosi nella nascita dell’Unasur (il precedente immediato della Celac, costituito dai Paesi del Mercosur e della Comunità Andina, dal Cile e dalle piccole Repubbliche della Guyana e del Suriname), fino al tentativo di creare qualcosa di nuovo e di grande, legato in maniera diretta al sogno di Bolívar: l’Alba, l’Alleanza bolivariana delle Americhe. Un lungo percorso, dunque, di cui la Celac è l’ultimo e più maturo frutto, salutato da più parti con toni entusiastici (ma ovviamente snobbato dai mezzi di comunicazione delle diverse oligarchie): «Tupac Amaru ha rispettato la sua promessa ed è tornato trasformato in 600 milioni», è il titolo per esempio del’articolo di José Suarez Danós su Rebelión (7/12), in riferimento alla celebre frase del leader indigeno peruviano giustiziato nel 1781, «Tornerò e sarò milioni». 

Tuttavia, l’integrazione, pur indispensabile ai fini della conquista della piena autonomia dagli Stati Uniti, non necessariamente risponde, di per sé, agli interessi popolari, tant’è che sono apparsi convinti sostenitori del nuovo organismo anche presidenti come il colombiano Juan Manuel Santos, il cileno Sebastián Piñera, il messicano Felipe Calderon o l’honduregno Porfirio Lobo, dei quali certo non si può dire che abbiano a cuore le sorti dei poveri. Tutto dipende dunque dagli interessi e dai valori in funzione dei quali l’integrazione viene promossa. Interessi e valori che ad oggi appaiono strettamente legati, come sottolinea Paco Gómez Nadal (Otramérica, 7/12) a quel famigerato «modello agroindustriale ed estrattivo» che vede il Brasile esercitare sempre più il ruolo di potenza “sub imperiale”. Non a caso, ricorda Gómez Nadal, il 30 novembre scorso il Consejo Suramericano de Infraestructuras y Planeamiento dell’Unasur definiva un piano di investimenti di 13.700 milioni di dollari fino al 2022, il cui nucleo è costituito dai corridoi ferroviari Brasile-Cile e Brasile-Bolivia-Cile e da grandi autostrade (Venezuela-Colombia-Ecuador e Perù-Brasile) che garantiranno uno sbocco sul Pacifico alle esportazioni brasiliane. (claudia fanti)

 

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