ARGENTINA: CONDANNATI ALL’ERGASTOLO GLI ASSASSINI DI MONS. ANGELELLI
Tratto da: Adista Notizie n° 27 del 19/07/2014
37733 LA RIOJA-ADISTA. Sì, fu proprio un assassinio la morte di mons. Enrique Angelelli, in quel lontano 4 agosto 1976. Questo ha stabilito il processo che è arrivato a sentenza il 4 luglio scorso condannando all’ergastolo i due mandanti: Luciano Benjamín Menéndez, che è stato alla testa del III Corpo dell’Esercito dal settembre 1975 al settembre del 1979 con l’incarico di dirigere le azioni delle Forze Armate e di Sicurezza in 10 province argentine, e il comandante di divisione navale Luis Fernando Estrella. 38 sono stati gli anni di impunità. Per 38 anni quell’omicidio è rimasto seppellito sotto la sfacciata e mai creduta menzogna di un banale incidente di macchina, avvenuto in prossimità di Punta de los Llanos sulla strada che stava riportando il vescovo di La Rioja a casa, dopo una celebrazione in memoria dei due sacerdoti, Carlos de Dios Murias e Gabriel Longueville che erano stati assassinati insieme al laico Wenceslao Pedernera il 18 luglio (fra gli articoli più recenti di Adista, v. nn. 32/11, 40/13 e 11/14). Quell’“incidente” che «pose fine alla vita di Enrique Angelelli e che attentò anche alla vita del sacerdote Arturo Pinto», che si trovava al fianco del vescovo, ha detto il presidente della corte, fu «conseguenza di un’azione premeditata, provocata ed eseguita nel quadro del terrorismo di Stato».
I documenti consegnati da papa Bergoglio
Fra le tante testimonianze contro i due imputati, due scritti a firma di Angelelli, a pochi giorni dalla morte. Innanzitutto una lettera del 5 luglio 1976 indirizzata all’allora nunzio apostolico in Argentina, card. Pio Laghi (scomparso nel 2009), nella quale scriveva: «Mi hanno consigliato di dirglielo: sono stato di nuovo minacciato di morte» da alcuni membri dell’organizzazione cattolica di ultradestra “I crociati della Fede della Costa”, proprietari terrieri che attaccavano pubblicamente il vescovo (fino a cacciarlo a pietrate, nel 1973, da Anillaco, in provincia di La Rioja) e che sulle pagine del quotidiano El Sol, lo chiamavano «il vescovo rosso», «comunista», «satanelli». Angelelli documenta tutto a Laghi allegando le pagine del giornale. Ed inoltre enumera in dettaglio la crescente ostilità che dovevano sopportare lui e i suoi preti da parte di Osvaldo Bataglia, capo del Battaglione del Genio civile.Il secondo documento è una memoria puntuale e particolareggiata degli eventi che precedettero – e “motivarono” – l’omicidio di Longueville e Murias. Entrambi i documenti erano custoditi in Vaticano e sono stati prontamente consegnati da papa Francesco su sollecitazione dell’attuale vescovo di La Rioja, mons. Marcelo Daniel Colombo, al quale il sacerdote francescano Miguel Ángel López aveva raccontato di aver consegnato personalmente in Vaticano a luglio del ‘76 il dossier confidenziale di Angelelli. Documenti effettivamente ricevuti dato che portano il numero di protocollo in italiano e, come data di archiviazione, quella del 30 luglio 1976. Laghi fu ripetutamente accusato dalle Madri di piazza di Maggio di complicità con la dittatura. “Non sapevo”, fu l’eterno refrain del cardinale (v. fra gli altri, Adista n. 7/99). «Le carte provano la mendacia di Pio Laghi, che si sottrasse alle sue responsabilità rasentando la copertura», ha dichiarato a Infojus Noticias Bernardo Lobo Bugeau, avvocato della Segreteria argentina dei Diritti Umani, uno dei soggetti querelanti. «Nel 2000, in un’intervista alla giornalista Olga Wornat, Laghi – ha aggiunto – si scandalizzò perché lo si accusava di simili delitti. Ora sappiamo che era perfettamente a conoscenza di quanto stava succedendo».
“San Enrique de los Llanos”
Alla vigilia della sentenza, il 3 luglio, nella cattedrale di La Rioja mons. Marcelo Colombo ha officiato una messa «in omaggio a mons. Enrique Angelelli». «Trentotto anni fa, in questi stessi giorni – ha ricordato nella sua vibrante omelia – Angelelli soffriva per gli attacchi e le ingiuste accuse e perché gli veniva impedito [dagli uomini della dittatura] il libero esercizio del suo ministero pastorale. Non poteva accettare il “suggerimento” di mantenersi distante, di fare attenzione alla sua pelle, di lasciare il suo gregge. Presentiva i pericoli che si addensavano sulla sua testa, ma agiva mosso dal Vangelo di Gesù Cristo nel suo impegno personale irrinunciabile a favore degli esseri umani. Intravide che le morti di Gabriel Longueville e Carlos Murias e del laico Wenceslao Pedernera preannunciavano la sua. Ma continuò a rimanere sulla breccia, a sostenere fino alla fine il bastone del buon pastore».
«Come Chiesa di La Rioja – ha detto ancora – vogliamo portare avanti la missione di Gesù fra gli esseri umani e percorrere senza titubanze quei cammini che mons. Angelelli ha risolutamente proposto: il rinnovamento ecclesiale come compito di ognuno di noi; il servizio come contenuto e metodo del nostro agire pastorale», «l’opzione preferenziale per i poveri e gli esclusi, la conversione pastorale delle nostre istituzioni, la ricerca della volontà di Dio per la sua Chiesa. Questi aspetti di importanza sostanziale che la vita e la dedizione fino alla morte di mons Angelelli hanno proclamato profeticamente costituiscono per noi una eredità sacra fermamente radicata in Gesù Cristo».
Il 6 luglio, mons. Colombo ha annunciato la prossima apertura del processo di canonizzazione per martirio di Angelelli. E tuttavia i sacerdoti riuniti nel Gruppo per l’Opzione dei Poveri pregano già il vescovo assassinato come «san Enrique Angelelli»: «Aiutaci a seguire le tue orme», scrivono in un comunicato del 4 luglio. Che si apre con una citazione di León Gieco, cantautore argentino: «San Enrique de los Llanos», «fu quando le Chiese tacquero». Perché, scrivono i sacerdoti, «a quell’incidente credettero solo i complici della dittatura, fra i quali dobbiamo lamentare purtroppo la presenza di vescovi che allora si dicevano “suoi fratelli”». «Celebriamo la giustizia che segue il suo corso», aggiungono, e dichiarano di «gioire per l’atteggiamento di papa Francesco, che ha risposto sollecitamente alla richiesta del vescovo Colombo di conoscere la verità serbata per anni in Vaticano». «Speriamo, forse ingenuamente», concludono, che «l’episcopato argentino riconosca Angelelli martire ed esprima al contempo il suo pentimento per aver mantenuto il silenzio sul suo assassinio», che invece «reclamava giustizia».
“La complicità della Chiesa”
Non poteva che meritare elogi papa Francesco per la pronta consegna dei due documenti che, insieme ad una valanga di testimonianze ed altre carte, ha determinato la condanna dei due alti gerarchi della dittatura argentina. È quello che ha registrato e condiviso la stampa argentina. «Il ruolo che ha giocato papa Bergoglio dopo l’assassinio di Angelelli », scrive ad esempio il quotidiano Clarín (7/7), «da quando, durante la dittatura, era superiore dei gesuiti, passando per la presidenza dell’episcopato fino alla sua elezione come papa, fa a pezzi, almeno in questo caso – sottolinea –, le accuse di complicità con la dittatura e mette in luce il suo impegno per la verità e la giustizia».
Non emerge altrettanta assoluzione per la Chiesa argentina presa nel suo complesso. E in realtà neanche per il Vaticano. Anche in questo caso, un esempio. Il quotidiano Página 12, intervistando il 6 luglio l’ex sacerdote Arturo Pinto, che rimase ferito nell’“incidente” che uccise Angelelli, rammenta che, al processo, è risultato dai documenti portati dalla stessa Chiesa che «la gerarchia non appoggiava» il vescovo poi martirizzato. «Esistevano gravi complicità», afferma secco Arturo Pinto. «Ci sono settori della Chiesa che hanno negato e trattenuto documentazione che sarebbe stata molto utile per chiarire fatti come la morte di Angelelli. Se questi archivi che sono comparsi ora fossero apparsi prima, forse avremmo guadagnato tempo. La lettera [di Angelelli all’allora nunzio Laghi] consegnata dal Vaticano perché non è comparsa prima? Ma le complicità non si furono solo in questo caso. Ci sono state persone di Chiesa, come i cappellani nei diversi luoghi di detenzione, che hanno partecipato direttamente alle detenzioni e che hanno collaborato alla scomparsa, tortura e morte di molta gente. Non bisogna lavarsene le mani. Personalmente non mi sento responsabile, ma so che appartengo ad una Chiesa che ha macchie tuttora esistenti. Le complicità gravi di allora continuano ad esistere e bisogna riconoscerlo». (eletta cucuzza)
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