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Teologia queer. Il Dio “eccedente”

Teologia queer. Il Dio “eccedente”

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 17 del 09/05/2015
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Da cinquant’anni a questa parte si sono affacciate sulla scena due nuove importanti correnti teologiche: la teologia della liberazione e la teologia femminista. Entrambe, pur con notevoli differenze, si sono presentate come prassi di liberazione e non soltanto come una teoria sul divino. Hanno preteso cioè di parlare di Dio a partire dall’esperienza, e più specificamente a partire dall’esperienza dei popoli impoveriti in un sistema imperialista globale e da quella delle donne in un sistema patriarcale globale.

Negli anni ’80 è nata la teologia gay/lesbica che, analogamente, parlava a partire dall’esperienza di marginalizzazione e per contrastare la vergogna indotta che vivono le minoranze sessuali. Il legame tra la teologia gay e la teologia femminista si è rivelato subito particolarmente forte perché è stata la teologia femminista a porre per prima il problema dell’oltrepassamento del dualismo tra anima e corpo nel cristianesimo occidentale, rivalutando dunque il corpo e la sessualità come luoghi teologici, cioè come luoghi dove si fa esperienza di Dio in modo particolarmente pregnante.

Com’è noto, la teologia gay/lesbica si è occupata molto della questione ermeneutica (è vero che la Bibbia condanna l’omosessualità? È corretto leggere la Bibbia alla ricerca di regole morali e sessuali per l'oggi?) e ha proposto percorsi esistenziali nei quali la rilettura del testo biblico come storia di liberazione si intreccia con le storie personali.

La teologia queer, che è sorta alla fine degli anni '90, è erede della teologia gay/lesbica, ma per certi versi si pone anche in maniera critica di fronte ad essa. Un tema centrale della teoria queer, a cui la teologia queer è legata, è la critica all’identità sessuale. Nella lingua inglese, la parola “queer” originariamente significava soltanto “strano/stravagante” ma almeno dal XIX secolo viene impiegata con significato dispregiativo, cioè per indicare la devianza sessuale. Oggi, l’assunzione consapevole di questo termine per se stessi vuole indicare la partecipazione a una nuova fase del movimento di liberazione sessuale, una fase che oltrepassa l’idea dell’identità, considerata come una trappola che dà alla società “normale” il potere di etichettare dei gruppi di persone e dunque di stabilirne la moralità o l’amoralità. Il soggetto queer rifiuta la normalizzazione e intende se stesso come un pungolo che disturba i discorsi sulla sessualità o sul maschile/femminile (cioè sul genere) che hanno pretese di dominio. È una notevole ingenuità oppure un colpevole inganno, dal punto di vista della teoria queer, affermare che l'autodeterminazione individuale è un valore centrale del mondo occidentale quando in realtà la posizione socio-sessuale di ogni individuo, cioè la sua identità di genere e/o la sua identità sessuale sono ampiamente determinate dall'esterno. Quando la teoria queer combatte l'eterosessualità normativa, non dice soltanto che l'eterosessualità non deve essere imposta alle persone che non si considerano eterosessuali, e ovviamente non propone un'assurda “omosessualizzazione” degli individui o della società, ma prova a muoversi a un livello molto più profondo: si tratta di comprendere che l'eterosessualità come norma ha costretto per molto tempo le persone ad adeguarsi a delle identità prefissate che spesso sono limitanti e non corrispondono alla creatività individuale, quando non sono addirittura fonte di violenza e di sofferenza. 

I testi queer chiedono quindi ai loro lettori di istituire consapevolmente dei comportamenti che disturbino la fissità delle identità. In una intervista del 1979 Roland Barthes diceva: «Lo spettacolo, la cosa più anticonformista e quindi, letteralmente, la più scandalosa che forse abbia visto nella mia vita (…) era un giovane, in una carrozza del métro a Parigi, che ha tirato fuori dalla borsa un lavoro a maglia e si è messo ostentatamente a sferruzzare. Tutti hanno avuto una sensazione di scandalo ma nessuno l’ha detto». Oggi questo potrebbe essere definito un gesto queer perché mette in crisi, molto più profondamente delle parole, i criteri che sorreggono tutta l'impalcatura dell'identità maschile. Magari l'individuo in questione ha una relazione stabile con una donna, ma è anche queer. In questo senso, il termine “queer” non sostituisce affatto il termine “gay” o “omosessuale”, nonostante l'uso corrente.

Ma che cosa ha a che fare tutto questo con la teologia? Prima di tutto, i teologi e le teologhe che hanno studiato la teoria queer proseguono e approfondiscono la critica teologica femminista. Come la teologia femminista intende mettere in crisi l'impianto patriarcale della religione che ha ridotto le donne a ruoli subalterni, così la teologia queer attacca quegli elementi della religione che, in nome di Dio, hanno supportato la marginalizzazione di desideri e di modi di essere che invece, nella loro varietà, testimoniano la creatività di Dio. A fianco della critica, la teologia queer propone una prassi di liberazione, come fanno anche la teologia femminista e la teologia gay/lesbica, però in questo caso non si tratta più di invitare dei gruppi definiti alla lotta (le donne, gli omosessuali), perché tutti i credenti e le credenti possono compiere azioni queer destabilizzando l'assetto del potere all'interno della Chiesa, un assetto che si basa sull'esclusione e la condanna di alcuni desideri umani che possono sfociare in relazioni non canoniche. Tuttavia, a mio parere, le riflessioni più interessanti della teologia queer sono quelle che individuano una comunanza tra le strategie queer e la radicalità originaria del progetto cristiano. È noto, perlomeno agli studiosi, che il cristianesimo delle origini presentava diversi elementi socialmente rivoluzionari, a partire dalla critica della famiglia e della struttura del potere politico. Uno sguardo queer permette di rendersi conto che la teologia cristiana è imbevuta di riflessioni e di esperienze sul tema del corpo, del genere e della sessualità non sempre conformi agli scopi del potere, ma anzi potenzialmente sovversive. C'è comunque tra i teologi e le teologhe queer chi preferisce insistere sulla critica radicale agli elementi della tradizione cristiana che hanno denigrato la corporeità e la sessualità, nonostante le affermazioni simboliche contrarie, e c'è chi si spinge fino a identificare proprio nella simbologia cristiana del corpo e nel trattamento cristiano della questione dell'identità una visione queer ante litteram che non aspetta altro che di essere riscoperta. 

La maggior parte dei teologi e delle teologhe queer si colloca tra questi due estremi, riuscendo in modo più o meno convincente a confezionare una mistura tra la fedeltà ai principi della critica femminista e la ripresa radicale dell'ortodossia teologica. Una riflessione interessante è stata proposta da Eugene Rogers a partire dal fatto che nella Lettera ai Romani Paolo adopera due volte l'espressione para physin (tradotta di solito come “contro natura”): la prima volta per parlare dei rapporti sessuali correnti tra i pagani (Rm 1) in un passo che è stato poi usato per giustificare la persecuzione delle persone omosessuali, e la seconda volta per parlare dell’azione di Dio che innesta gli stessi pagani sul tronco di Israele (Rm 11). Che cosa ci dice questo su Dio? Se anche Dio agisce “contro natura” non si rimescolano forse le carte in tavola rispetto ai nostri miseri e balbettanti discorsi sulla sessualità? L’idea dell’eccedenza di Dio rispetto ai nostri discorsi è centrale per la teologia queer. Non si tratta solo del senso dell’ineffabilità del divino (che come sostiene Althaus-Reid, può essere anche un concetto utile al potere patriarcale) ma di accorgersi dello strano comportamento di un Dio che, secondo la rivelazione biblica, viene continuamente a confondere la carte in tavola e quindi, forse, nella nostra epoca, ci sta invitando a rivedere le nostre certezze sull'identità sessuale e di genere.

Il Dio queer

Molte donne che hanno collaborato al progetto della teologia della liberazione latinoamericana hanno da tempo sollevato un dura critica al machismo che la permea. Marcella Althaus-Reid (1959 – 2009) ha condiviso questa critica interna, ma l'ha voluta condurre ai suoi esiti radicali. In una prima fase ha elaborato la nozione di “teologia indecente” puntando i riflettori sulla nozione di “decenza” come cardine del sistema latinoamericano di oppressione delle donne, degli indigeni e delle minoranze sessuali. Nella sua ultima opera, Il Dio Queer (Claudiana Editrice, pp. 315, 24,50€), Althaus-Reid si è alleata con i fermenti della teologia queer per liberare anche Dio dalle gabbie della decenza. Dio, infatti, viene pensato dai sistemi totalitari (ad esempio, la “teologia vaticana”) come la giustificazione ultima dei propri criteri morali di esclusione. In Althaus-Reid, invece, Dio fa il suo coming out, si svela come principio di rottura e di novità, anziché come principio di ordine. In realtà, «Dio [è] presente nella complessità delle sessualità ribelli e delle relazioni delle persone (…). Lo scandalo teologico è che i corpi parlano, e Dio parla per mezzo loro» (p. 92). La sessualità è costitutiva dell'esistenza umana e anche dei sistemi simbolici che regolano la società. Ma se Dio è queer, crolla la possibilità di manipolare la religione a scopi di sopraffazione. Il Dio queer è «fluido e instabile proprio come noi, ma anche pronto a ridere e a godere mentre persegue il fine divino della giustizia trasgressiva che scompiglia la legge» (p. 289). 

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