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Idomeni. Dove si incontra l’umanità più vera

Idomeni. Dove si incontra l’umanità più vera

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 15 del 23/04/2016

Entrando nel campo di Idomeni si avverte nell’aria un forte odore di plastica bruciata. La legna non è sufficiente per alimentare il fuoco che serve per cucinare un pasto caldo e per riscaldare la notte fredda che inesorabilmente colpisce i corpi indifesi dei profughi.

Da due mesi, quasi 12mila “dannati” sono accampati in questa piccola frazione di Kilkis, a nord di Salonicco, al confine con la Macedonia, dove vivono poche persone, perlopiù agricoltori.

Le loro tende, quelle messe in piedi da Medici Senza Frontiere, dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e dai volontari indipendenti, sono il simbolo di una enorme emergenza umanitaria che sta coinvolgendo il Paese più povero del Vecchio Continente.

In questo luogo, l’istituzione europea, colpevolmente assente, ha interrotto il loro cammino e quindi le loro speranze di una vita migliore. Adesso sono lontani dai conflitti, dai terroristi del sedicente Stato islamico, di Jabhat al Nusra, costola di Al Qaeda in Siria, ma le loro sofferenze non sono finite. La polizia macedone è durissima. Li ha respinti a colpi di gas lacrimogeni e pallottole di gomma mentre tentavano di rompere l’alta rete di recinzione che divide la Grecia dalla Macedonia.

Nei sacchi e negli zaini che trascinano da mesi si portano dietro i pochi ricordi di una vita che hanno lasciato definitivamente alle spalle. Hanno superato prove difficili per arrivare fin qui: lunghe marce per attraversare i confini; traversate a bordo di gommoni dalla costa turca alle isole greche; e poi a piedi e con mezzi di fortuna fino al confine macedone. La maggior parte vuole raggiungere la Germania e il Nord Europa.

Per farlo hanno scelto, mettendo il loro destino nelle mani di mercenari senza scrupoli, la rotta dei Balcani. Troppo rischiosa quella del Mar Mediterraneo che, purtroppo, ha conosciuto migliaia di morti. Ma anche questa via è seminata di lutti, di disperazione e di centinaia di bambini risucchiati nell’abisso del Mar Egeo. Rischiano la vita per salvare la vita. Un paradosso infernale senza via d’uscita fintanto che i loro Paesi sono infiammati dalla guerra.

È cosi che Mosa Khalil, suo fratello Moustafa, le rispettive mogli e sei figli piccoli sono arrivati a Idomeni. Una famiglia siriana di origine curda scappata dalla furia dell’Isis. Dalla Siria, passando  per la Turchia, sono sbarcati in un’isola greca da un barcone con altre 45 persone a bordo. Vivevano ad Aleppo dove svolgevano l’attività di artigiani. Un giorno Mosa mi invita a bere un caffè nella sua tenda in compagnia della sua famiglia. Mi fa vedere alcune foto dal suo telefonino. Immagini che raccontano il loro lavoro. Costruivano mobili e cucine. Avevano 17 dipendenti, sei case di proprietà, adesso vivono in cinque piccole tende. Non vogliono più tornare ad Aleppo, hanno perso tutto. La loro meta è la Germania.

Nel campo si conosce la vera solidarietà. Quella dei volontari che da diversi continenti sono arrivati per dare un sostegno. È grazie al loro infaticabile lavoro che i profughi resistono nell’inferno di Idomeni. Le giornate sono scandite da molteplici attività, dall’assistenza sanitaria (le malattie respiratorie e quelle infettive sono le più presenti e con l’estate alle porte il campo sarà ingestibile) alla distribuzione di cibo e generi di prima necessità, fino all’assistenza legale.

Voglio ricordare in particolare due volontari che per una settimana sono stati i miei compagni di viaggio. Andrea, di Reggio Calabria, che vive a Istanbul per un progetto Erasmus. E poi Joana, una ragazza portoghese che per lungo tempo è stata in Kurdistan. Giovani straordinari e generosi, figli di un’altra Europa, quella solidale che non abbandona i propri simili, che guarda oltre i muri, oltre il filo spinato, con la mente aperta, che lavora per l’integrazione tra i popoli e che vuole costruire ponti di pace e solidarietà.

È notte quando lascio il campo per ripartire alla volta dell’Italia. Mentre mi allontano sento il forte brusio di voci che arriva dalle tende. C’è vita. In una mano stringo un piccolo oggetto in legno. È la copia di uno strumento musicale con i colori del Kurdistan. C’è scritto un nome, Mosa. L’ha fatto il mio amico curdo/siriano con le sue mani. Gli ho promesso che tornerò ad abbracciare ancora la sua famiglia e quella umanità sofferente che spera ancora che l’Europa apra le frontiere e le consenta di costruirsi una nuova opportunità di vita. 

Enzo Infantino, attivista per i diritti umani. È partito come volontario indipendente per Idomeni dove ha trascorso alcuni giorni nel campo profughi al confine greco-macedone; è rientrato in Italia il 10 aprile scorso

* Idomeni. Foto di Enzo Infantino

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