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Lo scandalo dei rimpatri e altre indecenze

Lo scandalo dei rimpatri e altre indecenze

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 30 del 10/09/2016

Quarantotto  migranti sudanesi, alcuni fermati alla frontiera, altri prelevati dal Campo Parco Roja di Ventimiglia, trasferiti in pullman a Torino e imbarcati su un volo che li ha riportati a casa. Si chiude così l’estate dei migranti. Con un salto di qualità nella logica repressiva della cui gravità come sempre solo il settore della solidarietà ha consapevolezza. Un’espulsione diretta su grandi numeri frutto di un accordo esplicito con un presidente, Omar Al Bashir, condannato dal Tribunale Internazionale dell’Aja per crimini di guerra e genocidio  in seguito alle stragi in Darfur nel 2006 e che ancora oggi tiene il Paese con sistematica violenza. Sconcertante, incredibile, grave, per la Caritas diocesana locale: «Esprimiamo il nostro sdegno e la nostra frustrazione perchè in questi mesi, presso la chiesa di Sant'Antonio ed al Campo Parco Roya, abbiamo incontrato migliaia di ragazzi e famiglie sudanesi, insieme a tanti volontari abbiamo ascoltato le loro storie di violenze subite e di fuga sentendoci fratelli che condividono un cammino». Ma solo pochi deputati, nell’indifferenza generale, hanno presentato un’interrogazione parlamentare, mentre tre attivisti hanno protestato in aeroporto subendo l’arresto e il processo per direttissima.  Un’ “operazione di alleggerimento”, secondo il prefetto Gabrielli - infatti i pasti serviti alla Croce Rossa sono scesi di una cinquantina di unità.  Piuttosto una deportazione illegale: è stato consentito a queste persone di inoltrare domanda d’asilo? Sembra improbabile visti i tempi. Hanno avuto la possibilità di appello? Assolutamente no! È la morte del diritto internazionale, di molte convenzioni, del concetto stesso di diritti umani e anche degli artt. 3, 10, 13 e 24 della nostra Costituzione, perché non c’è dubbio che, date le condizioni in cui versa il loro Paese, mai li avremo dovuti rimpatriare. Si parla addirittura della possibilità che agenti sudanesi vengano in Italia per identificare i migranti da espellere con procedura diretta. 

Sullo sfondo di una geografia politica reinventata in cui Paesi con dittature cruente come l’Egitto e la Turchia sono diventati Paesi “sicuri”, l’Europa ha ormai esplicitato la sua nuova strategia: respingere, preferibilmente in modo indiretto con finanziamenti e prebende politiche a Paesi che ci sbarazzeranno dei migranti fisicamente. E più a sud accade, meglio è: forse a questo preludono i respingimenti in Sudan di questa fine agosto. È anche la morte dell’Europa di Ventotene, ormai dovremmo dircelo chiaramente. La UE di oggi si blinda con violenza in ogni punto di passaggio: cariche e gas nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, accordi per controlli sempre più serrati alla frontiera del Brennero, previsti pattugliamenti misti su tutti i treni della linea Udine-Klagenfurt e nelle stazioni di Klagenfurt, Villach e Tarvisio; gli “stranieri irregolari” verranno “presi in carico dal Paese in cui sono stati trovati, senza particolari formalità"; 10mila persone bloccate in condizioni disperate nella “jungle” di Calais, lungo i confini orientali, poteri straordinari alle pattuglie dell’esercito, torture in Serbia e ovunque violenze diffuse ad opera di forze regolari e squadroni razzisti; dall’Ungheria, dove si progetta di raddoppiare il muro e di allestire presidi per respingimenti lampo, sono arrivate foto di persone, anche bambini, gravemente ferite dagli attacchi dei cani. E in mare si è arrivati agli inseguimenti di strani corpi paramilitari nell’Egeo: la Bourbon Argos, una delle navi di soccorso di Medici Senza Frontiere, è stata assaltata e perlustrata da uomini armati.

Ma c’è anche un’Europa che non dimentica i principi base dell’umanità. I salvataggi in mare continuano, capillari e su grandi numeri:  1.000 persone, anche 5.000 in una notte, in questo scorcio finale dell’estate. Si segnala un grandissimo lavoro della nostra Marina militare e della nostra Guardia costiera, insieme a quello di navi di organizzazioni umanitarie. Ormai i recuperi avvengono anche molto a sud, come quello del 29 agosto, a 17 miglia davanti Sabratha: le pattuglie libiche o non intervengono o addirittura sparano o se effettuano salvataggi rimpatriano immediatamente tutti. L’ultima trovata è far partire le barche senza satellitare. A Porto Palo di Capo Passero 35 persone, tra cui Melorin, una bambina di due anni, sono arrivate da sole, dopo essere state abbandonate su un isolotto. Le missioni ufficiali inviate da Ue, Frontex e ora Eunavfor Med, invece hanno nel loro mandato solo il pattugliamento a fini di sorveglianza e per la ricerca di trafficanti e se effettuano salvataggi sono ai fini dell’identificazione. Di fatto un’operazione contro i migranti, con possibilità, secondo le dichiarazioni ufficiali, di un’escalation militare. 

Anche gli arrivi continuano. In numero alto ma  decisamente inferiore rispetto alla scorsa estate, anche se la retorica dell’invasione non lo dice. Il flusso non si può fermare. «Avevo cercato di dissuaderlo in tutti i modi, ma lui è sempre stato un testardo. Gli avevo detto che il viaggio è troppo pericoloso, ma lui ha deciso lo stesso di partire, 8 mesi fa. Dall’Eritrea è andato in Etiopia, poi in Sudan e infine in Egitto, dove ha preso la barca che è arrivata fin qui, a Pozzallo. Ho fatto fatica a riconoscerlo, non lo vedevo da 9 anni. Ma il momento in cui l’ho visto scendere dalla nave non lo dimenticherò mai. È arrivato sano e salvo. È Tedros, mio fratello», ha raccontato Yohannes, mediatore culturale di Emergency in Sicilia. È una precisa volontà politica, contaminata però da elementi irrazionali, una paranoia xenofoba, quella che esprimono i governanti della UE: con i fondi spesi per finanziare Erdogan e per una folle e disumana repressione – solo il muro ungherese è costato 21 milioni di euro – si potrebbero gestire il viaggio in sicurezza – come dimostra l’esperienza dei “corridoi umanitari” avviata in Italia – e l’accoglienza in modo da creare condizioni di crescita positive per tutti.

Per chi riesce a arrivare e fermarsi spesso comincia una storia drammatica. Hotspot, Cara, Centri di accoglienza di vario genere, tanti nomi e definizioni burocratiche sottili per dire in realtà una sola cosa: centri per identificare ed eventualmente espellere o luoghi di detenzione di fatto, anche violenta, o di desolanti attese senza obiettivi. Difficilissimo l’accesso per i giornalisti e le organizzazioni indipendenti. Ma può bastare la dichiarazione della segreteria regionale calabrese del sindacato indipendente di polizia (Coisp) sul Cara di S. Anna, a Isola Capo Rizzuto, il più grande centro di accoglienza europeo, gestito dalle Misericordie: «(…) un capannone con dentro ammassata gente non identificata, che viene chiuso a chiave, con finestre chiuse e senza areazione, per evitare che gli stranieri possano allontanarsi. Cosa che tentano puntualmente di fare quando i colleghi, atterriti da questo stato di cose, aprono le porte per cambiare l’aria, tanto che l’ingresso deve essere vigilato da un nucleo del Reparto, sempre che ci sia qualcuno disponibile. Queste persone in attesa di identificazione vengono dunque chiuse a chiave, e sistematicamente vengono superati i termini di legge previsti per i riconoscimenti. Questo stato di cose è diventato una routine, tanto che qualcuno lo ha rinominato come un “sequestro per identificazione”». Aria irrespirabile, nessuna privacy,  panche di legno e materassi a terra, due soli bagni con muffe, porte in ferro con fessure come le carceri «e gli immigrati rimangono a guardare fisso attraverso quell’unica fessura di dieci centimetri quadrati, e chi di noi sta fuori a osservare tutto questo deve faticare mentre fa a botte con la propria coscienza». Nessuna sicurezza per nessuno: «Non c’è bisogno di un esperto di diritto per capire che trattenere le persone ammassate così – e i colleghi a tentare di tenere tutto sotto controllo in un clima di tale disagio – è un abuso. (…) È indispensabile mettere mano seriamente a questa struttura vergognosa oppure chiuderla senza indugi».

A Pozzallo e in altri centri in queste condizioni ci sono “detenuti” anche minori, in spregio ad ogni Convenzione internazionale sull’infanzia. E chi esce o fugge, senza nessun sostegno, si trova esposto ad abusi di ogni tipo – nel Cara di Mineo si organizzavano giri di prostituzione – e alla criminalità. Lo sfruttamento sul lavoro nel settore agricolo e in alcune aree industriali può rientrare sotto la definizione di “nuova schiavitù”.

Ma la solidarietà dal basso non si ferma, capillare, tenace e invisibile: nelle stazioni, nelle piazze nella Sicilia degli sbarchi, nelle grandi città. Una rete di accoglienza vera che contrasta ogni giorno il montare della xenofobia anche nelle istituzioni e che favorisce concretamente l’integrazione. Un’integrazione che nonostante tutto, procede. L’immagine di tanti immigrati con i volontari dei soccorsi durante il terremoto è stata la migliore risposta a chi anche in questa tragedia ha provato diffondere odio. 

Cristina Mattiello è docente a Roma

* Idomeni. Foto di Enzo Infantino

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