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La finanziarizzazione della natura

La finanziarizzazione della natura

Tratto da: Adista Documenti n° 39 del 12/11/2016

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L'analisi economica e politica delle risorse naturali ci conduce, inevitabilmente, a una questione centrale del capitalismo contemporaneo: la finanziarizzazione della natura che trasforma i beni naturali in “commodities” (beni indifferenziati che si prestano a essere scambiati sui mercati finanziari, ndt), creando un ampio campo di accumulazione finanziaria in spettacolare crescita.

La “finanziarizzazione della natura” non esprime solo la sua mercificazione, ma comporta anche una distruzione accelerata delle risorse naturali e dell'ambiente, provocando danni irreversibili ai processi geofisici e alla biosfera, con conseguenze sociali di enorme rilevanza. (…). I dati mostrano come già nel 2008, prima dell'inizio della crisi economica mondiale, il 66% del mercato mondiale di commodities fosse nelle mani degli speculatori tradizionali e degli speculatori di nuovo tipo (fondi speculativi, compagnie di assicurazione, banche, ecc.). Il processo di finanziarizzazione della natura è accompagnato dall'espansione di multinazionali, transnazionali e imprese globali che operano nel settore minerario e nella produzione di alimenti. (…). 

La maggior parte dei contratti di sfruttamento delle risorse minerarie sottoscritti dalle imprese e dai Paesi latinoamericani presenta un quadro regolatorio che garantisce alle prime operazioni che vanno dai 20 ai 40 anni e che sottomette i secondi ai centri di arbitrato internazionale che operano in consonanza con le imprese transnazionali, condizionando attraverso molteplici meccanismi la sovranità dei Paesi interessati.

FRACKING E GOLPE BIANCHI IN AMERICA LATINA

La distruzione accelerata della natura come conseguenza della sua finanziarizzazione incontra la sua espressione più radicale all'inizio del XXI secolo nella produzione di idrocarburi non convenzionali (shale oil e shale gas) attraverso la tecnica di fratturazione idraulica più nota come “fracking”. Mai nella storia l'umanità ha avuto la capacità di incidere in maniera così profonda sui processi geologici del pianeta. L'estrazione di idrocarburi non convenzionali dalle rocce porose del sottosuolo richiede la perforazione verticale a profondità inedite di 3mila metri (la profondità dei pozzi convenzionali giunge appena a mille metri), da dove si realizzano perforazioni orizzontali in varie direzioni fino a una distanza di 1.600 metri. La fratturazione della roccia avviene iniettando enormi quantità di acqua, sabbia e un composto di sostanze chimiche che includono acidi, anticorrosivi, battericidi, riduttori di frizione e altre sostanze la cui composizione è ancora ignota all'opinione pubblica. È importante segnalare che, per ogni perforazione compiuta attraverso la tecnica del fracking, sono necessari da 100 a 170mila litri di sostanze chimiche, cioè da 5 a 9 camion cisterne di grandi dimensioni. Di tale composto, il 20% ritorna in superficie, con un potenziale di devastazione ampliato dalla presenza di sostanze contaminanti del sottosuolo (…) provenienti dalle rocce fratturate. Mentre il restante 80% rimane nella falda freatica, inquinando le riserve di acqua sotterranea, il suolo e il sottosuolo.

Secondo i dati, più della metà dei pozzi perforati negli Stati Uniti tra il 2011 e il 2013 si trova in aree di stress idrico, come per esempio il campus di Marcellus, nello Stato della Pennsylvania, dove più del 35% delle risorse idriche destinate al consumo dei municipi, cioè alla conversione in acqua potabile, è stato deviato verso l'industria del fracking, con un impatto senza precedenti sulla salute pubblica (...).

Agli effetti contaminanti di questa tecnica bisogna associare altri effetti di grande impatto ambientale e sociale, come l'induzione di fenomeni sismici nelle regioni produttrici di idrocarburi non convenzionali: dai 21 episodi all'anno registrati tra il 1970 e il 2000 si è passati a oltre 150 episodi all'anno a partire dal 2010. L'indice di sismicità, cioè, è cresciuto di più di 7 volte come conseguenza diretta dell'impatto geologico legato alla fratturazione idraulica (…). 

La misurazione dell'impatto geologico, ambientale e sociale del fracking è ancora assai distante dal rivelare la reale ampiezza del suo effetto devastante. Le ricerche realizzate fino a oggi indicano che le conseguenze di questo procedimento non si sono ancora mostrate pienamente e che avranno un effetto a lungo termine.

Attraverso questa tecnica gli Stati Uniti hanno aumentato la produzione di petrolio dai 5 milioni di barili al giorno del 2009 ai 9 milioni del 2012. Ma è a partire dal 2013 che la produzione su grande scala è cresciuta drasticamente, giungendo a oltre 13 milioni di barili al giorno nel 2015, con conseguente brusca caduta del prezzo internazionale del petrolio a livelli inferiori ai 40 dollari a barile. Un processo che, paradossalmente, ha comportato anche la crisi della stessa economia del fracking: se già un prezzo internazionale del petrolio sotto i 90 euro al barile disincentivava l'industria degli idrocarburi non convenzionali, un prezzo inferiore ai 40 dollari non poteva non provocare una crisi irreversibile delle principali imprese operanti in questo settore. Già nel primo trimestre del 2016, la crisi di queste imprese risultava evidente e, nei mesi successivi, varie hanno dichiarato bancarotta e annunciato la loro riconversione.

È poco probabile che l'Agenzia statunitense per l’informazione sull'energia e il Servizio Geologico degli Stati Uniti non avessero ben chiara la dimensione dell'impatto ambientale e sociale del fracking e, pertanto, il suo carattere effimero. Tutto indica che l'indipendenza energetica ottenuta dagli Usa a partire dalla produzione di idrocarburi non convenzionali avesse una data di scadenza, come parte di una strategia diretta a promuovere un lieve recupero economico associato all'immagine internazionale di un nuovo ciclo di crescita dell'economia statunitense.

Questa guerra di aspettative generata dal fracking ha permesso di articolare una nuova offensiva politica tesa a destabilizzare i governi della regione decisi in qualche misura a perseguire una gestione sovrana delle proprie risorse naturali. Non è un caso che, nel marzo del 2015, il presidente Obama dichiarasse il Venezuela, Paese che vanta la più grande riserva mondiale di petrolio al mondo, una «minaccia “inusuale e straordinaria” alla sicurezza nazionale, preparando le condizioni per un intervento militare. Neppure è casuale il fatto che la crisi politica brasiliana abbia avuto inizio proprio dalla Petrobrás e che uno dei primi decreti proposti dalla destra brasiliana, dopo la realizzazione del golpe parlamentare, sia stato quello della sospensione del regime giuridico che riconosceva alla Petrobrás la gestione esclusiva delle riserve di petrolio del presal, che, come è noto, potrebbero fare del Brasile uno dei principali produttori di petrolio a livello mondiale.

È importante notare come, per tutto il periodo di “autosufficienza energetica”, gli Stati Uniti non solo non abbiano smesso di importare idrocarburi, ma abbiano anzi ampliato le proprie importazioni avvantaggiandosi del basso prezzo del petrolio nel mercato mondiale. Ciò significa che, per tutto il periodo d’oro del fracking, gli Stati Uniti hanno ampliato considerevolmente la propria riserva strategica di petrolio: un aspetto che, in termini geopolitici, possiede un peso rilevante.

Alla luce delle conseguenze ambientali, geologiche e sociali del fracking, possiamo affermare che si tratta dell'avventura più pericolosa e irresponsabile che la logica del capitale abbia prodotto fino a questo momento nel suo tentativo di riconfigurare il mercato mondiale dell'energia e gli interessi geopolitici degli Stati Uniti a livello mondiale.

L'ATTIVITÀ MINERARIA E IL CONFLITTO SOCIALE

L'attività mineraria è una delle principali cause dei conflitti socioambientali in America Latina. Secondo la CEPAL (la Commissione Economica per l'America Latina), il 35% dei conflitti avvenuti tra il 2007 e il 2012 nella regione è stato la conseguenza dell'estrazione dell'oro, il 23% di quella del rame, il 15% di quella dell'argento, il 5% di quella del molibdeno e il 22% di quella del ferro, dello zinco, dell'uranio e di altri minerali. Gli stessi dati espressi per Paese pongono il Perù al primo posto per numero di conflitti, seguito da Cile, Argentina, Brasile, Colombia e Messico. La logica dell'estrattivismo legato agli interessi delle economie centrali e senza alcun impegno a favore di progetti nazionali e/o locali di sviluppo ha prodotto, storicamente, un effetto combinato di: 1. perdida di sovranità economica e politica e di gestione delle risorse naturali da parte dei Paesi della regione; 2. devastazione ambientale accumulata di grandi dimensioni; 3. politiche di espulsione di popolazioni locali, generalmente indigene e contadine, dai territori che albergano riserve importanti di risorse naturali e 4. un processo crescente di militarizzazione dei territori e di criminalizzazione della protesta, come principali meccanismi per impedire proteste popolari che mettano a repentaglio la grande attività mineraria e gli interessi delle imprese transnazionali operanti in questo settore, articolati con gli interessi strategici dei Paesi egemonici.

Tali conflitti acquistano una dimensione sempre più violenta, in un processo in cui la disputa per le risorse naturali poggia in misura crescente su una politica di militarizzazione dei territori. (…). Nel caso peruviano, l'apertura dell'Amazzonia peruviana, che rappresenta più del 60% del territorio nazionale, allo sfruttamento del petrolio e del gas tramite concessioni a lungo termine a imprese transnazionali, in una superficie che è passata dal 15% dell'Amazzonia nel 2004 al 75% nel 2008, è stata accompagnata da una crescente presenza militare degli Stati Uniti nel territorio peruviano. Tra il 2004 e il 2012 sono entrati nel territorio 118mila militari statunitensi per realizzare esercizi di addestramento militare (…) insieme alle forze armate del Perù, della Colombia e del Cile, Paesi che fanno parte dell'Alleanza del Pacifico (…). 

Come affermiamo da anni, la disputa globale per le risorse naturali dispiega strategie multidimensionali di accesso, gestione e appropriazione di tali risorse a livello planetario legate alle imprese transnazionali come principali attori economici di questo processo, a politiche di militarizzazione dei territori, a meccanismi diversi di criminalizzazione della protesta e dei movimenti popolari, a politiche di destabilizzazione delle democrazie nella regione come pure a strumenti commerciali e politici orientati a indebolire i processi di integrazione in America Latina.

Molte sono le minacce e le sfide che la regione si trova di fronte in questa nuova congiuntura di restaurazione conservatrice nel continente, ma sono anche molte le possibilità che sorgeranno a partire dalle forze popolari e trasformatrici che non sono disposte ad accettare passi indietro rispetto a conquiste politiche e sociali realizzare a partire da tante lotte.

* Foto di Lily Rhoads, tratta da Flickr. Immagine originale e licenza.

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