Don Milani, prete, maestro e cittadino: un nuovo libro sul priore di Barbiana
Tratto da: Adista Notizie n° 3 del 21/01/2017
38821 ROMA-ADISTA. Il 2017 è anno di anniversari importanti. Tra questi, anche i 50 anni dalla pubblicazione di Lettera ad una professoressa e della morte di don Lorenzo Milani, colui che fu l’ideatore e il “regista” di questa fondamentale opera collettiva, che ha cambiato profondamente la scuola, la pedagogia, la società italiana, oltre che la Chiesa stessa. È quindi logico che siano molti i libri usciti o in uscita che tentano di fare il punto sulla attualità di questa straordinaria figura. Alcuni (v. Adista Notizie nn. 44/2016 e 1/2017) abbiamo già avuto modo di segnalarli sulle pagine di Adista. Ad essi si aggiunge ora un agile volumetto di Giancarlo Loffarelli, versatile figura di intellettuale (prima docente di religione cattolica, poi di filosofia e storia, ma anche drammaturgo, scrittore, regista teatrale, attore, addirittura autore di un cortometraggio – La porta – vincitore di un concorso organizzato dal C.I.R. (Consiglio Italiano per i Rifugiati): Don Lorenzo Milani. Prete, maestro, cittadino (Pazzini, 2016, pp. 112, euro 12: può essere richiesto ad Adista (tel. 06/68801924, e-mail: abbonamenti@adista.it, oppure acquistato online sul sito www.adista.it). Loffarelli ha inteso ricostruire i cardini della biografia e del pensiero milaniano, in particolare per chi ha forse solo sentito parlare del priore di Barbiana. Un testo chiaro, semplice ma documentato (con amplia bibliografia e molti riferimenti all’epistolario milaniano) adatto soprattutto a chi, specie tra i più giovani (o comunque a coloro che non hanno vissuto la temperie culturale degli anni ’60 e ’70), desidera un primo approccio alla figura di don Lorenzo e alla radicale attualità del suo magistero. Il libro affronta molte delle questioni legate all’esperienza di prete e maestro di don Milani. Anzitutto quella della scuola e della necessità che essa sia reale strumento di perequazione rispetto a quelle differenze sociali, culturali ed economiche che l’art. 3 della Costituzione impegna la Repubblica a rimuovere. Del resto, nella celebre lettera ai giudici, più volte chiamata in causa da Loffarelli, Milani raccontava così, ai magistrati che dovevano giudicarlo per aver difeso il diritto all’obiezione di coscienza, la sua attività di maestro a Barbiana, dove era stato “esiliato” nel 1954: «La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c'era solo una scuola elementare. Cinque classi in un'aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l'anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell'orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico». E ancora, nella Lettera ad una professoressa, aggiunge: «Non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica. Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perchè il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva una polemica su questo punto. Un professorone disse: “Lei reverendo non ha studiato pedagogia. Polianski dice che lo sport è per il ragazzo una necessità fisiopsico…”. Parlava senza guardarci. Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline. Finalmente andò via e Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: “La scuola sarà sempre meglio della merda”».
Dalla scuola Loffarelli passa alla questione dell’obbedienza, che Milani subordina, come prete e come maestro, al superiore giudizio della coscienza. Poi il radicale rifiuto del concetto di guerra giusta, in un periodo (nemmeno poi tanto diverso da nostro) in cui si celebrava la retorica del 24 maggio e il 4 novembre, la “quarta guerra di indipendenza” e la liberazione di Trento e Trieste; e tutto ciò nonostante le morti, le sofferenze, la repressione, i gas, le decimazioni, i suicidi e le automutilazioni di chi preferiva l’invalidità all’incubo della trincea, le bugie e la propaganda degli alti comandi militari e del governo.
Nel libro si racconta inoltre degli anni giovanili di Lorenzo Milani, dell’esperienza del seminario, della parrocchia di Calenzano e della scuola popolare, del rapporto con i ragazzi e quello, difficile e controverso, con l’istituzione ecclesiastica, sempre drammaticamente arretrata rispetto ai suoi profeti incompresi ed emarginati. Emerge, nello sviluppo del pensiero milaniano, una sempre più decisa scelta di assumere la condizione del suo popolo; e di rinunciare alle prerogative ed ai privilegi che gli derivano dalla sua originaria condizione di borghese: «Non voglio morire signore, cioè autore di libri, ma con la gioia che qualcuno ha capito che per scrivere non occorre né genio né personalità perché ci sono regole oggettive che valgono per tutti e per sempre e l'opera è tanto più arte quanto più le segue e s'avvicina al vero. Così la classe operaia saprà scrivere meglio di quella borghese. È per questo che io ho speso la mia vita», scrive don Lorenzo al giornalista Giorgio Pecorini, nel 1967. E borghese Milani non lo era nemmeno nella presunzione di sapere più dei suoi piccoli allievi, o di non avere altro da imparare. Loffarelli cita a questo proposito una intensa lettera in cui Milani risponde alle critiche mosse in un periodo di permanenza all’estero di uno dei suoi allievi prediletti (che a Barbiana ci aveva vissuto, oltre che studiato), Michele Gesualdi: «Se la vita t’ha insegnato cose che io ignoro – gli scriveva Milani nel dicembre 1963 – perché non me le insegni?». «So bene che molti aspetti della vita moderna mi possono sfuggire, ma questa è anche colpa tua. Informami meglio».
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