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Voto per chi e per che?

Voto per chi e per che?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 4 del 03/02/2018

Se il voto cambiasse qualcosa, sarebbe illegale!». Mi torna in mente come un refrain questa lapidaria affermazione, all’inizio di una campagna elettorale di cui mi auguro una subitanea fine. Fosse per me, la seppellirei prima che finisca.

La scritta, apparsa non pochi anni addietro sulle strade di San Francisco, sta a significare la inutilità di un rito obsoleto, incapace a significare e a supportare ciò per cui, all’inizio del secolo scorso, era stato assunto: la democrazia! Sia chiaro: questo giudizio, crudo e tranciante, non riguarda le elezioni così come si vorrebbe che fossero, ma l’andazzo volgare nella versione ultima nella quale la politica diventata pubblicità le ha ridotte. Prendiamo le distanze dall’antipolitica populista fatta di luoghi comuni, di giudizi preconcetti e di plebiscitarismi di massa che sono, anch’essi tra gli uccisori della democrazia.

La situazione di impasse storica in cui ci troviamo è caratterizzata da due fattori di debolezza: uno esterno alla politica e l’altro interno ad essa.

Come fattore esterno dobbiamo denunciare la debolezza e, oserei dire, la “nullità” della politica di fronte al capitale finanziario e al suo vettore, il mercato. A iniziare dalla fine degli anni Settanta, assecondata anche dai declami delle destre liberiste quali “Più Mercato e meno Stato”, “Meno barriere e più mobilità”, “giù le tasse” e via reclamando, la politica è stata derubata della sua autorità e del suo potere, fino a diventare lo zerbino delle multinazionali.

L’effetto più deleterio di questa decapitazione è stato la morte stessa della politica, sostituita dalla “governance”. «In un sistema caratterizzato dalla governance – scrive un mio amico in un suo blog – l’azione politica è ridotta alla gestione, a ciò che nei manuali di management viene chiamato problem solving. Cioè alla ricerca di una soluzione immediata a un problema immediato, cosa che esclude alla base qualsiasi riflessione di lungo termine fondata su principi e su una visione politica discussa e condivisa pubblicamente. In un regime di governance siamo ridotti a piccoli osservatori obbedienti, incatenati a una identica visione del mondo con un’unica prospettiva, quella del liberismo».

Il filosofo canadese Alain Deneault ha scritto di recente un libro dal titolo La Mediocrazia, là dove si legge che «la governance è in definitiva una forma di gestione neoliberale dello Stato, caratterizzata dalla deregolamentazione, dalle privatizzazioni dei servizi pubblici e dall’adattamento delle istituzioni ai bisogni delle imprese. Dalla politica siamo scivolati verso un sistema (quello della governance) che tendiamo a confondere con la democrazia».

A questo processo degenerativo esterno, che ha decretato la morte della politica, se ne è aggiunto un altro, conseguente ed interno alla politica, quello per cui i partiti hanno smesso di essere fucine di pensiero e di programmazione, con le loro scuole e i loro “corsi di formazione”, per ridursi a semplici agenzie pubblicitarie, in gara tra loro a chi sa vendere di più. Naturalmente bisogna prima scegliere il prodotto e poi trovare la confezione giusta, captativa e capziosa, perché il popolo bue abbocchi.

Ecco quindi la rincorsa alle promesse più strabilianti e impossibili: niente tasse, nuovo sviluppo, più occupazione, pensione a tutti…

Ed ecco il trucco delle parole “nobili” a copertura di oggetti ignobili: Libertà per libertinaggio, Progresso per consumismo, Giustizia per vendetta, Missione per occupazione…

Il dibattito politico è ridotto ai minimi termini, a polemica e propaganda, e nel Paese desertificato si moltiplicano le riffe delle candidature e le fiere degli schieramenti.

Eravamo nel 2008 quando Paolo Cacciari, con lucida lungimiranza denunciava questa riduzione della politica e del sindacato a tecnica in mano ad una casta professionalizzata e ad un baronato opinionista: «Il risultato è che la politica è diventata fiction e la fiction politica. Democrazia e un’altra serie di parole comuni hanno perso il loro senso comune... in un mondo che ha subìto una trasformazione antropologica» (Carta, 11 novembre 2008). E Marco Damilano concludeva: «La politica senza volto ha perso la faccia ed è diventata la politica dei volti... Al potere senza volto si è andato progressivamente sostituendo il volto senza potere: una politica invasiva che non conta quasi più nulla nelle grandi decisioni planetarie, sempre più in mano ai poteri economici e militari».

* Aldo Antonelli è prete ad Avezzano

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