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Laicità in politica: un percorso ad ostacoli

Laicità in politica: un percorso ad ostacoli

Tratto da: Adista Documenti n° 12 del 30/03/2019

Laicità in politica significa mettere al centro della propria azione nella sfera pubblica ciò che c’è di più umano nell’uomo, ovvero la libertà, svincolandolo al contempo dal vincolo imposto dal sacro e da ogni autorità superiore a quella della coscienza, specie nell’ambito religioso. La politica laica è dunque sempre una politica al “plurale”, che mira alla convivenza delle idee e all’esistenza delle minoranze, alle quali è riconosciuto il diritto di parlare e di tentare di convincere l’interlocutore. È mediazione, confronto, co-costruzione di una società sempre perfettibile.

Il sacro, in questo senso, è il maggiore nemico della laicità, perché è il vincolo che sottrae al dibattito pubblico temi e scelte che dovrebbero appartenere all’uso e alla responsabilità comune.

Viviamo per questa ragione un periodo di crisi della laicità che non è solo dei cattolici, ma è anche della società e della cultura denominata laica. E la religione piuttosto che veicolare la libertà della fede, continua a presidiare il legame (religio) del sacro.

Il Cristianesimo, storicamente, ha fatto questo, specie nella sua dimensione “costantiniana”. Il suo mandato era invece tutt’altro; ma solo una minoranza, all’interno del corpus ecclesiale e attraverso i secoli, se ne è ricordata, testimoniando e vivendo un modo diverso di essere Chiesa, meno fedele alla legge, ma più incarnato nella Parola. Perché il vero senso del Cristianesimo è quello di essere religione della libertà, fondata sulla scelta di un Dio che si incarna per assumere integralmente e radicalmente la provvisorietà, la limitatezza, la relatività e la dinamicità della realtà umana. Paradossalmente, quindi, staccare il cristianesimo dalla laicità vuol dire staccarlo da se stesso.

È però altrettanto vero che in una Chiesa strutturata in modo gerarchico, in una Chiesa che proclama verità valide in tutti i luoghi e in tutti i tempi, e che sottrae tali “verità” alla riflessione e all’intervento dell’essere umano, per il credente che voglia essere anche credibile (e soprattutto pensante) la conquista di una piena libertà e autonomia – sia come singolo che all’interno di una comunità – è stato e continua ad essere un percorso difficile e talvolta doloroso. Ma sempre necessario.

A ciò va almeno aggiunto che dopo la Liberazione e il breve periodo dei governi antifascisti di unità nazionale, il nostro Paese ha vissuto decenni di democrazia bloccata e sotto tutela; da una parte la Democrazia Cristiana, partito benedetto dalla Chiesa (anche se la Dc manteneva con la gerarchia ecclesiastica una autonomia che in anni successivi avremmo rimpianto) e sostenuta a livello internazionale dai governi occidentali; dall’altro, i partiti di ispirazione marxista, obbligati da una conventio ad excludendum a restare opposizione parlamentare, nonostante il crescente consenso elettorale.

In questo contesto, la laicità è forse la ragione costitutiva della nascita di Adista. Nel 1967 la testata nacque per la volontà di chi la fondò di interpretare non solo il cattolicesimo politico che non si riconosceva più nella Dc, nel dogma dell’unità dei cattolici in politica – cristiani, ma non democristiani: scelta di dirompente laicità per molti decenni – ma anche di tutte quelle esperienze che, dalla base ecclesiale, rivendicavano un nuovo protago- nismo dei credenti nella Chiesa e nella società, sulla scia del grande sommovimento seguito al Concilio e al ‘68. Si trattava insomma di una Chiesa “plurale” che non intendeva più farsi rappresentare da una gerarchia preoccupata principalmente di mantenere il feticcio di una identità monolitica e immobile, lontana da un rapporto fecondo con la modernità e con tutte quelle realtà – Cristiani per il socialismo, Comunità Cristiane di Base, movimenti delle donne, esperienze di frontiera, Teologia della Liberazione e teologie alternative ad ogni visione vaticanocentrica – i cui fermenti cominciavano a diffondersi nel tessuto politico ed ecclesiale, italiano ed internazionale.

Il 1968 fu il primo banco di prova per questa parte di Chiesa. Poi venne il referendum sul divorzio, nel 1974.

Attraverso quel voto, un’Italia fatta di cattolici battezzati, credenti e praticanti, si riappropriava della libertà di voto, fino ad allora subalterna al dogma dell'unità politica dei cattolici e sottoposta alle continue e pressanti indicazioni della propria gerarchia. Veniva riconquistata quell'agibilità politica a lungo repressa.

Si trattò di un passaggio della nostra vita civile e democratica che apriva una nuova stagione di responsabilità e di pluralismo politico per i credenti impegnati in politica, del resto già affermato – ma senza essersi pienamente realizzato e praticato – dal Concilio Vaticano II.

Passava definitivamente, con il referendum del 1974, il principio che ciò che si credeva per fede non doveva tradursi in leggi che imponessero obblighi anche a chi non credeva; né gli obblighi e i vincoli posti dalla Chiesa dovevano riflettersi anche  nella società secolare. Qualche anno dopo fu la volta dell’aborto. E fu senz’altro una scelta di laicità quella dei cattolici che sostennero il processo che portò all’approvazione, nel 1978, della legge 194 sull’interruzione di gravidanza. Ce ne furono anzi diversi di cattolici che, in Parlamento, contribuirono a scriverla quella legge. Erano i parlamentari della Sinistra Indipendente, laici e anche molti credenti che si erano fatti eleggere come indipendenti nelle liste del Pci e che da 1976 al 1992 costituirono un gruppo parlamentare, piccolo ma autorevole, che contribuì in modo determinante alla modernizzazione del Paese. Ed alla sua più matura laicità. La legge 194 del 22 maggio 1978 liberalizzò in Italia l’interruzione di gravidanza. I cristiani di sinistra ebbero un ruolo chiave nel momento in cui la legge arrivò alla discussione del Senato. Nel dibattito alla Camera aveva avuto infatti un peso determinante la cultura radicale, socialista e femminista. La Sinistra Indipendente cercò di saldare una prospettiva non più esclusivamente legata al diritto individuale delle donne, ma anche al modo con cui la Repubblica poteva farsi carico della questione, “socializzandola”. Su MicroMega (n. 3/2017) Raniero La Valle, già senatore della Sinistra Indipendente ed estensore dell’articolo 1 della 194 racconta: «Per noi la questione non era tanto nei termini di pensare il diritto all’aborto come un diritto di libertà, come una conquista civile, anche se cercammo di capire senza astio questa posizione; piuttosto ci angustiava il trattamento penale e il carcere per le donne e ci sembrava ormai improcrastinabile realizzare (tanto da cominciare a dibatterne prima ancora di entrare in Parlamento) una regolamentazione condivisa dell’interruzione di gravidanza, sottraendola alla clandestinità ed ai rischi per la salute delle donne. Al di là dei casi di aborto strettamente terapeutico, la decisione su una eventuale interruzione di gravidanza doveva ovviamente spettare alla madre stessa, ma a nostro giudizio ella andava aiutata in questa scelta da un consultorio pubblico o convenzionato, cosa per la quale si doveva lasciare un periodo di riflessione di 10-12 giorni prima dell’intervento. Questo aspetto della legge è stato spesso trascurato, ma per noi aveva una importanza fondamentale, perché in questo modo l’aborto non era più un fatto esclusivamente individuale, ma veniva socializzato, in quanto l’istituzione si poneva accanto alla madre e si faceva carico delle ragioni per cui ella intendeva abortire».

Che la società italiana fosse ormai maturata verso una cultura politica fondata sulla mediazione e sul pluralismo delle visioni e delle opzioni politiche fu chiaro quando, nel 1981, la legge 194 fu confermata dal referendum abrogativo voluto dalla Dc e dalle forze politiche conservatrici.

Altre tappe importanti nel percorso di laicità della politica italiana furono la mobilitazione seguita all’incomprensibile rifiuto del card. Camillo Ruini a concedere i funerali religiosi a Piergiorgio Welby, che si batteva per la possibilità di un malato terminale di interrompere la ventilazione artificiale che lo teneva in vita contro la sua volontà (2006); poi il fermento che tra il 2008 e il 2011 attraversò le diocesi, l’associazionismo, i movimenti ecclesiali che vivevano con sempre maggiore disagio la contiguità, quando non l’esplicito sostegno, dei vertici della Chiesa italiana con il potere berlusconiano; e ancora, in quegli anni (2008-2009) il vasto movimento di opinione pubblica – dentro cui c’era anche tanto mondo cattolico – a sostegno della battaglia condotta da Beppino Englaro per porre termine alla vita vegetativa della figlia Eluana. Il tempo affievolisce il ricordo preciso di situazioni e circostanze, ma il caso di Eluana provocò una crisi istituzionale senza precedenti, con Berlusconi che varò in tutta fretta un decreto legge per impedire l’esecuzione della sentenza della Corte di Appello di Milano che consentiva a papà Englaro di interrompere alimentazione e ventilazione forzata sul corpo della figlia. Il presidente della Repubblica rifiutò di firmare quel decreto non riscontrandovi i requisiti di necessità ed urgenza per emanarlo (Berlusconi convertì allora il decreto in una proposta di legge parlamentare forzando il Parlamento ad una approvazione in tempi strettissimi, ma non fece in tempo prima che la sentenza fosse eseguita).

E mentre questo movimento carsico ma continuo, seppure non sempre visibile, di credenti trasformava accanto a tanti laici il modo stesso di vivere la dimensione politica, anche dentro le Chiese e le fedi si faceva largo l’idea che non solo in una società avanzata debbano coesistere una pluralità di religioni – protestante, cattolica, ortodossa, ebraica, ecc. – ma anche che all’interno di una comune identificazione ci possa essere articolazione e dibattito.

La continua propensione alla ricerca critica deve oggi necessariamente coinvolgere ogni laico e ogni credente che vive in una società in mutamento, caratterizzata da una sempre maggiore complessità.

E il valore della laicità, declinata in politica, riguarda oggi il nostro modo di pensare i rapporti tra la Chiesa e lo Stato, tra la coscienza collettiva e le istituzioni. La ricerca è sempre aperta e i risultati sempre provvisori. E impossibile, per credenti e non credenti, l’imposizione di visioni manichee. Che pure sono il pericolo che costantemente minaccia le conquiste faticosamente raggiunte. 

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