
Effetti e affetti delle donne pastore nelle Chiese riformate
Tratto da: Adista Documenti n° 30 del 30/08/2019
A inizio settembre 2019 come pastori e pastore che servono nelle chiese battiste in Italia abbiamo previsto e programmato un piccolo seminario di aggiornamento. Ci confronteremo su come è cambiato negli ultimi decenni il ministero pastorale. Ci siamo accorti infatti dal nostro piccolo osservatorio di protestanti italiani che il pastorato ha subito delle trasformazioni e forse uno dei fattori di cambiamento più importanti siamo state proprio noi, “le pastore”.
Io appartengo alla prima generazione di pastore operanti nell’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia (UCEBI), essendo entrata come ministro con cura di Chiesa nel febbraio del 1983, dopo che in Assemblea generale dell’UCEBI delegati/e e pastori avevano discusso a lungo e approvato, con voto quasi unanime, l’apertura al pastorato delle donne. Mi aveva preceduta nel ministero soltanto una missionaria americana, Marylù Moore, una donna dolce e coraggiosa che nei suoi ultimi anni di servizio qui in Italia, era stata pastora in una delle nostre comunità, anche se non era ancora ufficialmente chiamata così.
Dal 1983 ad oggi sono passati 36 anni e tante altre donne si sono rese disponibili a servire nel ministero pastorale in ambito battista – donne intelligenti e preparate, generose e a volte complicate – che si sono aggiunte alle colleghe valdesi (che ci hanno preceduto di qualche decennio), le metodiste, le luterane, le anglicane, le ufficialesse dell’Esercito della salvezza (in Italia una piccola realtà ecclesiale in cui le donne sono state presenti da sempre nel ministero alla pari degli uomini). Ci sono anche alcune (ancora poche) pastore pentecostali, generalmente al servizio di comunità straniere. Insomma è giusto chiedersi: in questi anni le Chiese sono cambiate per il fatto che c’eravamo noi? E noi siamo cambiate? Come abbiamo rivestito questo ruolo? Il vestito era largo o ci stava stretto? Era monocolore o aveva mille toppe come il costume di Arlecchino? Insomma come ci sta? E noi come ci sentiamo?
Dare una risposta unica è difficile. Il pastorato è una cosa complessa e ognuna di noi – sono certa – avrebbe mille cose da raccontare, da considerare, da lamentare, forse… Per qualsiasi esperienza umana è importante chi è venuto prima di noi e per le più “anziane” fra noi i modelli erano per forza maschili. Ma c’erano anche allora pastori diversi. Pastori più tradizionalisti accanto ad altri che invece cercavano il dialogo con la società condividendone le lotte, adeguando linguaggi e comportamenti senza perdere di vista i compiti fondamentali: la predicazione responsabile dell’Evangelo, la testimonianza sul territorio, l’insegnamento della Bibbia, la cura delle persone fragili della Chiesa, la costruzione di comunità aperte, dialoganti e impegnate per la giustizia e per la pace.
Certamente quindi ognuna di noi, che cercava di orientarsi al meglio, fra le Chiese come in occasione di raduni nazionali, guardava a punti di riferimento maschili all’inizio, ma poi abbiamo cominciato ad incontrarci fra noi e anche ad imparare le une dalle altre, ad “inventarci” modi nuovi di interpretare il pastorato, a cercare, nella storia, delle pioniere da studiare, a confrontare le nostre riflessioni con quelle di teologhe protestanti europee e americane. Alcune di noi hanno fatto approfondimenti, sono state all’estero, hanno preso dottorati, sono diventate specialiste in teologia femminista o in scienze bibliche e così periodicamente ci siamo scambiate esperienze e riflessioni anche in dialogo con il movimento delle donne esterno alle Chiese. Non abbiamo escluso i colleghi da gran parte delle nostre riflessioni e da molti, non da tutti, abbiamo anche ricevuto attento ascolto.
Uno dei primi temi che abbiamo trattato e che ha avuto un impatto, credo, molto positivo sulle comunità e sulla stampa evangelica è stata la nostra scelta di linguaggio inclusivo, un linguaggio che sceglieva di rendere “visibile” il femminile. Noi appartenevamo ad una tradizione, quella protestante, in cui c’è il primato della parola a partire da quella predicata. Dunque abbiamo deciso di non parlare e scrivere più usando la parola “uomini” per intendere “esseri umani” o “umanità” e i pronomi maschili come fossero neutri e onnicomprensivi. Nella lingua nulla è neutro. Se come donne non siamo visibili nella lingua che parliamo ogni giorno, non esistiamo nell’immaginario degli italiani e delle italiane. E abbiamo coinvolto i giovani e le giovani in questa battaglia per il linguaggio inclusivo che infatti sono stati pronti/e a fare questa piccola importante rivoluzione a partire dai loro documenti e le loro pubblicazioni. Nel tempo siamo arrivati a portare cambiamenti sostanziali nel modo di parlare nelle Chiese e nelle Assemblee generali. In ambito battista abbiamo chiesto di cambiare in senso inclusivo i regolamenti e perfino il nuovo innario. È una battaglia epocale che condividiamo ancora con pochi in Italia, ma cambiare il linguaggio consapevolmente non è assolutamente facile e non avviene in poco tempo. Abbiamo però fatto già molta strada in un Paese in cui qualche donna desidera farsi chiamare “deputato”, “sindaco” o “avvocato”! Per le nostre Chiese questi termini maschili per indicare delle donne suonano assolutamente cacofonici al nostro orecchio e questo è proprio un bel risultato.
Ma oltre la lingua qualcos’altro è cambiato nelle nostre Chiese perché c’eravamo noi. Io credo che sia cambiato l’atteggiamento generale delle comunità. Oggi i fedeli e le Chiese nella loro grande maggioranza, direi, quando si tratta di discutere e votare qualcuno che prenda la guida della loro comunità, non oserebbero mai farne una questione di genere. Direi che in linea di massima un pastore o una pastora sono chiamati, valutati e scelti dalla comunità non perché sono uomini o sono donne, ma per le loro qualità personali. Nessuno, d’altra parte, ascolterebbe preferenze espresse in termini di genere, nessuno ne parlerebbe nemmeno. Se avvenisse per bocca di qualcuno, la persona verrebbe probabilmente subito censurata. Questo non vuol dire che non siano a volte presenti considerazioni sessiste camuffate da altri argomenti, ma il fatto di non considerare apertamente ammissibili tali argomentazioni è comunque un risultato importante, penso. E questo porta con sé la considerazione che ormai le pastore fanno parte integrante delle nostre denominazioni protestanti, la loro presenza è considerata normale. Che bella la normalità!!! E in alcune realtà, come quella protestante milanese in cui servo attualmente, la presenza di pastore è numericamente maggiore di quella dei pastori e questo ha un impatto di “rivoluzionaria normalità” anche in ambito ecumenico, sia cattolico, sia ortodosso, pur con qualche imbarazzo (e qualche incidente di percorso) particolarmente per questi ultimi!
E noi siamo cambiate? Io penso di sì. Abbiamo preso più coscienza di noi stesse e della potenzialità simbolica che abbiamo come donne pastore nelle Chiese e nel movimento ecumenico. I nostri corpi di donne ci aiutano a porre il problema della necessità di de-clericalizzare i ministeri nelle chiese. Quando ero incinta del mio terzo figlio, ricordo che la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani l’ho vissuta proprio in questa nuova consapevolezza. Il mio corpo arrotondato dalla presenza di un bimbo in me, donna a cui era affidato il ministero dell’annuncio dell’Evangelo nella Chiesa (in quella settimana, nelle Chiese!), era un segnale eloquente e molto visibile che si poteva vivere al servizio della Chiesa di Cristo senza rinnegare (o rinunciare a) la propria sessualità. Concepire, portare in grembo e dare alla luce una nuova creatura era vita e la vita deve poter essere simbolicamente presente nel culto e nella liturgia senza imbarazzi. Questo è oggi ormai dato per scontato e vissuto con naturalezza e consapevolezza nelle nostre Chiese e a volte anche fuori. All’inizio non era così.
Il nostro corpo di donne presenti con gli uomini nella Chiesa da sempre, ma ora anche in posizione di maggiore visibilità, ci aiuta anche a vivere come Chiese una vicinanza concreta e simbolica alle donne che nella società sono ancora sottovalutate, se non addirittura umanamente mortificate e vittimizzate dagli uomini. In questi ultimi decenni il fatto che noi ci siamo e abbiamo la parola nelle Chiese, una parola di autorità, ha aiutato le Chiese a confrontarsi con temi tradizionalmente tenuti fuori delle celebrazioni religiose, primo fra tutti quello della violenza maschile verso le donne e verso i bambini e le bambine. Abbiamo potuto e possiamo parlare per chi non ha parola. Con forza e convinzione possiamo promuovere campagne per sensibilizzare le donne delle nostre Chiese e non solo su questo drammatico fenomeno, possiamo incoraggiare pastoralmente le donne a denunciare i loro aguzzini, possiamo star vicino, ascoltare e sostenere le donne nei momenti drammatici della scoperta di gravidanze indesiderate. Non è facile ma lo abbiamo fatto e lo facciamo.
Se questo ruolo, questo vestito da pastore sia monocolore o colorato, direi che è molto colorato e le toppe sono spesso sovrapposte e difficili da separare. Siamo pastore, ma siamo spesso mogli o compagne, siamo spesso mamme, siamo insegnanti e uditrici, siamo intellettuali e assistenti sociali, siamo tante cose contemporaneamente. È così per tutte le donne ed è così anche per noi. Ma è così ormai anche per gran parte dei pastori a ben vedere. È proprio il ministero pastorale che è ogni giorno di più divenuto intrinsecamente multi-tasking che lo vogliamo o no. E dunque il nostro vestito deve essere elastico e dobbiamo essere attrezzati di ago e filo e molti spillini per adattarlo continuamente.
Ma a volte siamo stanche/i! Perché? Perché la vita da pastore/ i è complicata e è ad assorbimento totale... Eppure non ci rinuncerei per nulla al mondo! Post Scriptum. C’è un’altra domanda che non ho fatto ed è: ma i pastori sono cambiati con l’ingresso delle pastore? E se sì, quanto e come sono cambiati? Mio marito (anche lui pastore) sostiene che sono cambiati e in meglio, ma non ho fatto ulteriori indagini… D’altra parte bisognerebbe chiederlo a loro e poi scrivere un altro articolo!
Anna Maffei è pastora della Chiesa battista di Milano e già presidente l'Unione cristiana evangelica battista d'Italia (UCEBI).
La pastora Greti Caprez-Roffler, ordinata nel cantone svizzero dei Grigioni, in una foto del 1931 pubblicata su Vocevangelica - Chiese evangeliche di lingua italiana in Svizzera
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