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Bolivia: Morales vince per la quarta volta. Ma il risultato è contestato

Bolivia: Morales vince per la quarta volta. Ma il risultato è contestato

Tratto da: Adista Notizie n° 38 del 02/11/2019

40019 BOGOTÀ-ADISTA. Una vittoria estremamente sofferta quella con cui Evo Morales ha conquistato il suo quarto mandato presidenziale. Vittoria ottenuta per un soffio, essendo il vantaggio rispetto al secondo classificato, l'ex presidente Carlos Mesa, di poco superiore a quei dieci punti percentuali necessari secondo la Costituzione – in assenza di una maggioranza assoluta – a garantire la vittoria già al primo turno: 47,07% contro il 36,51%% (con 89mila voti in bianco e 224mila voti nulli). Tuttavia l'opposizione, che già riteneva illegittima la sua ricandidatura – dopo la sua bocciatura al referendum del 21 febbraio 2016 – non ha voluto riconoscere il risultato, denunciando brogli elettorali e dando vita a proteste e scontri.

«Non ho nulla da nascondere», ha assicurato Morales di fronte alle accuse lanciate dalla destra, invitando a presentare le prove dei brogli e invitando l'Oea (Organizzazione degli Stati Americani) a verificare il computo dei voti.

Il rapporto della missione degli osservatori dell'Oea, tuttavia, non gli è stato sicuramente d'aiuto: dopo aver constatato varie irregolarità rispetto ai principi di legalità, trasparenza e imparzialità, il rapporto ha raccomandato infatti il ricorso al ballottaggio: «Nel caso in cui il margine di differenza sia superiore al 10%, è ragionevole, statisticamente, concludere che la vittoria sarà per una percentuale infima. Considerando il contesto e le relative problematiche, la migliore opzione sarebbe quella di procedere alla convocazione di un secondo turno».

Ma è stato soprattutto sull'interruzione per quasi 24 ore del sistema di conteggio rapido, il Trep (Trasmissione dei risultati elettorali preliminari) – quando, con l'83,76% dei voti scrutinati, i dati mostravano una chiara tendenza verso il ballotaggio – che ha fatto leva la destra per contestare i risultati.

Non a caso, il vicepresidente del Tribunale supremo elettorale (Tse) Antonio Costas ha rinunciato all'incarico proprio in disaccordo con tale interruzione, parlando di una «decisione sconsiderata» con cui, ha detto, «è stato screditato tutto il processo elettorale». Una decisione che la presidente del Tse, María Eugenia Choque, ha giustificato con l'ar gomento che il computo ufficiale dei voti era a quel punto già iniziato e non era possibile portare avanti conteggi paralleli. Ma la spiegazione non ha convinto tutti e, soprattutto, non ha convinto l'avversario di Morales, Carlos Mesa, e le altre forze di destra.

Così, il Comitato nazionale di difesa della democrazia (Conade) ha convocato uno sciopero nazionale indefinito, mentre – in attesa del conteggio definitivo dei voti – proseguono le manifestazioni dei gruppi di opposizione. E preoccupazione per gli «evidenti segni di brogli » viene espressa anche dai vescovi della Bolivia, con un appello a rispettare la volontà del popolo. «Il Tribunale elettorale ha perso credibilità», ha dichiarato il presidente dei vescovi boliviani mons. Ricardo Centellas, secondo cui «la soluzione è quella di convocare un secondo turno, ma con un altro Tribunale».

Secondo Morales, tuttavia, si tratterebbe solo di un tentativo di colpo di Stato orchestrato dalle destre con l'appoggio degli Stati Uniti, su cui del resto aveva già richiamato l'attenzione prima ancora delle presidenziali di domenica. E, difendendo il risultato elettorale, ha rivolto un appello agli organismi internazionali a «difendere la democrazia».

Di sicuro, per Morales deve essere stato un sollievo evitare il ballottaggio, e con esso il rischio che si ripetesse quanto accaduto al referendum del 21 febbraio del 2016 sulla possibilità di una sua ricandidatura (attraverso la riforma dell'articolo 168 della Costituzione del 2009, che prevede una sola rielezione consecutiva). Allora, per negargli la possibilità di un nuovo mandato, tutta l'opposizione, di destra e di sinistra, si era coalizzata contro di lui. Con il risultato che, malgrado l'esito trionfale delle elezioni del 2014, dove aveva incassato oltre il 60% dei voti, al “no” alla ricandidatura era andato circa il 51,3% dei voti, contro il 48.7% dei sì.

A quel punto Morales si trovava di fronte a due possibilità: accettare il risultato del referendum, preparando il cammino per la sua successione (con più di tre anni di tempo a disposizione per farlo) o ignorare la volontà degli elettori – su cui aveva comunque pesato una campagna sporca da parte delle destre – cercando di ottenere il suo obiettivo per altre vie. Alla fine aveva scelto la seconda strada, attraverso un ricorso al Tribunale costituzionale – considerato vicino all'Esecutivo – che aveva finito per autorizzarne nuovamente la candidatura, in quanto diritto umano garantito dai trattati internazionali ratificati dal Paese. Ma pagando un prezzo in termini di immagine, almeno in una parte della popolazione.

L’alto prezzo del miracolo economico

E un altro colpo all'immagine di Morales è venuto dagli incendi che hanno devastato la regione della Chiquitania, mandando in fumo 2 milioni di ettari di Amazzonia boliviana. Accusato dall'opposizione di aver sottostimato il disastro perché troppo preso dalla sua campagna elettorale, Morales non aveva poi risparmiato sforzi per avere la meglio sulle fiamme. Ma la sua autorizzazione per decreto dei “roghi controllati” per preparare il terreno per colture e pascoli lo aveva comunque inchiodato alle sue responsabilità.

E se a questo si aggiungono gli effetti nefasti di un estrattivismo fortemente incentivato dal governo, con conseguente devastazione, nel nome dello «sviluppo» e del «progresso », degli ecosistemi e delle condizioni di vita dei popoli che li abitano, è facile comprendere l'erosione dei consensi sofferta dal primo presidente indigeno della storia boliviana.

Di certo, prima di lui, la Bolivia era il Paese più povero e disprezzato della regione, in cui il 40% della popolazione era analfabeta, più della metà sopravviveva con un dollaro al giorno, più del 60% dei bambini con meno di cinque anni soffriva di denutrizione. Un Paese i cui abitanti, emigrando in cerca di migliori condizioni di vita, si vergognavano di rivelare la propria nazionalità, tanto era bassa la loro autostima. Con Morales, non solo l'economia è cresciuta a una media del 5% l'anno, ma la popolazione ha anche recuperato la sua dignità e la sua fierezza.

Tutti gli indicatori parlano di ciò che Forbes ha definito «il miracolo economico dell'America Latina»: il Pil è salito dai 9,5 miliardi di dollari nel 2005 ai 37,7 attuali, le riserve internazionali sono le più alte dell'America Latina, il turismo ha conosciuto uno sviluppo del 143%. E, d'altro canto, l’analfabetismo è stato vinto, l'indice di povertà passato è dal 60,6% al 36,4% e quello di povertà estrema dal 38% al 15%, la speranza di vita è aumentata da 64 a 71 anni.

Tale "miracolo" ha avuto tuttavia un costo altissimo. Per quanto siano molti i cittadini che hanno beneficiato in vario modo della gestione statale dello sfruttamento di risorse naturali, l'estrattivismo galoppante ha comunque determinato l’espulsione delle comunità rurali, l'avvelenamento delle fonti d’acqua, la distruzione del suolo, la deforestazione, l'indebolimento dell’autonomia territoriale indigena.

* Juan Evo Morales Ayma in una foto [ritagliata] di Eneas De Troya  del 2013 tratta da flickr, immagine originale e licenza

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