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Quando le politiche industriali fanno male a salute e ambiente

Quando le politiche industriali fanno male a salute e ambiente

Tratto da: Adista Documenti n° 42 del 07/12/2019

La prima pietra del siderurgico venne posta il 9 luglio 1960 e la prima colata fu effettuata il 20 novembre 1964 alla presenza dell’allora presidente del Consiglio, Aldo Moro. Taranto dopo la guerra vide entrare in crisi l’attività dell’industria bellica che aveva sostenuto l’economia locale. Nel corso degli anni ‘50 gli iscritti al collocamento aumentarono continuamente (con una breve flessione nel 1954-55). Alla fine del periodo i disoccupati nel capoluogo erano cresciuti del 30%, e in tutta la provincia del 62%. Contestualmente le forze lavoro (cioè la popolazione in età da lavoro) crebbero rispettivamente soltanto dell'11 e del 6%. Tradotto: il tasso di disoccupazione aumentò sensibilmente.

Questa situazione era ben chiara alle classi dirigenti del tempo, che finirono per individuare nel siderurgico un'opportunità per dare un futuro a una comunità stremata da una lunga crisi di cui non si intravedeva la fine. Lo stesso provarono a fare altri territori (Bari, Brindisi, Siracusa), ma Taranto in quell'occasione ebbe la meglio. Anche in queste città del Sud sorsero dei mega impianti chimici che dovevano modernizzare ampie aree del Mezzogiorno dominate per secoli dal latifondo. Dopo la messa in marcia del siderurgico vi fu una prima ondata di disoccupazione di ritorno. Nel 1970 fu deciso il raddoppio dell’impianto per l’accresciuta richiesta di acciaio sul mercato mondiale. L’impianto comportò una forte espansione edilizia che favorì i settori imprenditoriali tradizionalmente legati alla politica locale democristiana con una importante cointeressenza dell’allora arcivescovo Motolese. Lo sviluppo creato si limitò all’indotto specifico ma non si creò mai un manifatturiero diversificato.

Inquinamento ambientale

Sul piano ambientale si iniziò ben presto ad avere contezza dell’impatto del siderurgico. L’amministrazione provinciale si era posta molto presto la questione dei possibili danni ambientali e sanitari dell’inquinamento generato dal siderurgico. Nell’ottobre del 1964 fu organizzato un convegno su “Problemi di medicina sociale in una zona a rapido sviluppo industriale”. L’Ufficiale Sanitario di Taranto, il dott. Alessandro Leccese, aveva evidenziato che gli studi condotti sino ad allora avevano rilevato una maggiore mortalità per tumori al polmone soprattutto dove nel pulviscolo atmosferico sono presenti berillio, molibdeno, arsenico e benzopirene. Nel 1965 e nel 1967 il medico aveva prodotto altre relazioni sulle emissioni del siderurgico in mare e in atmosfera, ma per questa sua attività doveva sperimentare un sostanziale isolamento. Scriveva nel suo diario: «Mi hanno lasciato solo a battermi per la difesa di Taranto dall’inquinamento determinato massivamente dagli scarichi a mare delle acque di lavorazione del centro siderurgico entrato in funzione di recente. Malgrado le sollecitazioni fatte dal Ministero della Sanità al prefetto, al medico provinciale e al sindaco, per fronteggiare la grave situazione venutasi a creare, nessuno di loro si è mosso, nel timore di urtare la suscettibilità di alcuni politici locali interessati al problema».

Le prime indagini

Nel 1970 alcune iniziative delle amministrazioni locali avevano indotto i propri tecnici a svolgere delle indagini. In particolare fu condotta attraverso 10 centraline dislocate in diversi punti della città per la misurazione delle sostanze gassose e del particolato. Le conclusioni avevano evidenziato la situazione particolarmente critica dell’area occidentale, quella più vicina al siderurgico, riguardo alle polveri mentre i picchi di anidride solforosa erano stati registrati nelle zone residenziali a nord del Mar Piccolo, il quartiere ribattezzato Paolo VI in onore della visita del papa al centro siderurgico nella notte di Natale del 1968.

Nello stesso periodo un’altra indagine svolta dal laboratorio chimico provinciale aveva segnalato il significativo aumento delle polveri sospese in prossimità dell’area industriale in condizioni di vento proveniente da nord-ovest. Inoltre l’indagine condotta sulle stesse polveri aveva mostrato la netta prevalenza dei tipi più sottili, i più pericolosi per la salute umana. La concentrazione di questo tipo di particelle nell’area industriale superavano di dieci volte quelle registrate in altri punti dell’abitato.

E i lavoratori?

Anche i lavoratori

L’Italsider si rivelò presto anche un ambiente di lavoro pericoloso per i lavoratori. Nel 1969 L’Unità aveva denunciato 44.417 feriti e 165 morti dall’avvio dei lavori per la realizzazione del siderurgico nel 1960. Questi dati, insieme ad uno studio dell’Istituto di medicina sociale condotto da Franco Martinelli, avevano evidenziato delle criticità nel processo produttivo che mettevano a repentaglio la salute dei lavoratori. Sotto l’impulso di questi ed altri studi, la coscienza operaia sui rischi da lavoro crebbe e attraverso la mobilitazione si puntò alla internalizzazione e razionalizzazione degli appalti nei quali, per la corsa al ribasso dei prezzi, gli operai maggiormente erano esposti a rischi lavorativi. In realtà fino al 1976 non era in vigore una disciplina che normasse i livelli ammessi degli inquinanti.

Nel 1979, a seguito di una esplosione a catena causata dallo sversamento illegale di sottoprodotti, che aveva provocato la morte di un operaio e il ferimento di altri 14, il sindacato FLM provinciale avviò una mobilitazione con la richiesta di indagini ambientali, biostatistiche ed epidemiologiche condotte da strutture terze che però non erano presenti a Taranto né nell’Italia del Sud. I sindacati non volevano che queste attività fossero svolte dall’Italsider in proprio.

Anche la locale Pretura presso la Procura della Repubblica costituì una “sezione ecologica” composta dai magistrati Giulio Fischetti e Franco Sebastio (poi divenuto procuratore della Repubblica sempre a Taranto). La sezione condusse indagini sull’inquinamento marino che portarono alla condanna di un ex-direttore di stabilimento nel 1982. Tra il 1981 e 1982 la stessa Pretura condusse un’indagine sull’inquinamento atmosferico ma in assenza di una normativa fece ricorso all’art. 674 del Codice Penale («getto pericolose di cose») che nel luglio del 1982 portò alla condanna di un altro direttore di stabilimento sia pure a pene lievi. Il Comune di Taranto ritirò la costituzione di parte civile in cambio del finanziamento di opere di miglioramento dell’arredo urbano e della costruzione di collinette che dovevano contrastare nelle intenzioni la dispersione di polveri al quartiere Tamburi. Con quel denaro furono anche acquistate le centraline per il rilevamento dell’inquinamento atmosferico. Solo nel 1988 fu adottata la legge-quadro DRP 203/88 per il controllo della qualità dell’aria. Dopo il referendum del 1993, che separò le competenze ambientali da quelle sanitarie, nacquero l’Agenzia Nazionale per l’Ambiente e le Agenzie Regionali mentre nel Servizio Sanitario sorsero i Dipartimenti di Prevenzione con compiti anche epidemiologici. Un’industria con un gravissimo impatto ambientale e sanitario era stata installata in un contesto totalmente privo di capacità di controllo!

Nel 1988 la Regione Puglia ottenne dal Ministero dell’Ambiente il riconoscimento di “area ad elevato rischio di crisi ambientale” per Taranto e tre comuni limitrofi. Nel 1990 fu accolta la richiesta di un Piano di disinquinamento che diede impulso ad ulteriori indagini. Nel 1994 i tecnici della USL TA/4 rilevarono in prossimità delle cokerie del siderurgico livelli di benzo(a)pirene, un potente cancerogeno della famiglia degli idrocarburi policiclici aromatici (Ipa), largamente superiori a quelli di aree limitrofe. Sul versante della salute alla popolazione nel 1992 sempre la USL TA/4 evidenziarono un più elevato indice di mortalità da carcinoma polmonare tra la popolazione del quartiere Tamburi (a ridosso del siderurgico) e tra i lavoratori. Del 1995 in poi furono i rapporti sella Sezione Italiana della Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a confermare questo dato in successive edizioni fino alla V di qualche mese fa.

Da Italsider a ILVA

Nel 1995 l’Italsider fu privatizzata e assunse la denominazione di ILVA; la proprietà fu assunta dal gruppo Riva che condusse una gestione molto severa nei riguardi dei sindacati e degli stessi operai che non si piegavano agli indirizzi aziendali. Significativa fu la vicenda della palazzina LAF dove furono segregati a non far nulla tutti i lavoratori riottosi. La palazzina LAF fu oggetto di un procedimento giudiziario che si concluse con condanne della dirigenza industriale per mobbing. Nel 1996 fu concessa la prima Autorizzazione Integrata Ambientale prevista dall’adozione della nuova normativa europea.

Nasce il movimento ambientalista tarantino

Nel 2007 la elezione a sindaco di Ippazio Stefano del partito della Rifondazione Comunista e vicino al presidente della Regione, Nichi Vendola, diede fiato al movimento ambientalista. La procedura della nuova AIA fu oggetto di numerose osservazioni da parte di esponenti di associazioni e singoli esperti che indussero a istituire un tavolo istituzioni-azienda per giungere ad un accordo per il rilascio dell’autorizzazione.

Intanto nel 2008 si verificò un fatto che può considerarsi miliare nella storia industriale non solo tarantina: il presidente dell’associazione ecopacifista Peacelink, Alessandro Marescotti, dimostrò con analisi condotte in un laboratorio indipendente fuori regione un’elevatissima presenza di diossine nei prodotti caseari provenienti da allevamenti che pascolavano in aree prossime all’ILVA e sui cui ricadevano le emissioni dello stabilimento. La scoperta provocherà l’abbattimento di 1.200 ovini e caprini. Peacelink ha sempre sostenuto l’incompatibilità ambientale del siderurgico e ha rilevato anche la connessione con lo sfruttamento delle terre e delle popolazioni dell’Amazzonia da dove giunge il carbone per la produzione di acciaio. Nel marzo 2009 un cartello di associazioni ambientaliste, Alta Marea, promosse una manifestazione di 20.000 persone a cui partecipò anche il presidente Vendola.

Interviene la magistratura

Ma sarà il 2012 l’anno forse più importante per il siderurgico tarantino. A seguito dell’ennesima indagine giudiziaria per il reato di disastro ambientale, il Giudice delle Indagini Preliminari, dott.ssa Patrizia Todisco aveva dispo- sto una indagine epidemiologica, molto avanzata dal punto di vista metodologico, condotta da un gruppo di epidemiologici non pugliesi guidato da Annibale Biggeri e Francesco Forastiere, che per la prima volta attribuiva alle emissioni ILVA un certo numero di decessi, esattamente 30 all’anno. La stessa magistrata dispose il sequestro dello stabilimento che provocò reazioni delle maestranze, sostenute dalla proprietà, e una contrapposizione-scontro tra queste e i manifestanti di Alta Marea. Furono settimane molto critiche che videro anche gli stessi imprenditori Riva destinatari di provvedimenti giudiziari.

La pubblicazione di intercettazioni telefoniche metteranno in crisi l’immagine ambientalista del presidente Vendola colto a deridere con Archinà, il responsabile delle pubbliche relazioni del Gruppo Riva, un giornalista che chiedeva all’imprenditore cosa pensasse delle morti attribuibili alle emissioni di ILVA. Nello stesso periodo, dalle indagini emerge la consuetudine di offerte, diecimila euro ogni Natale e Pasqua, all’arcivescovo Benigno Papa che ne ammette l’esistenza quando viene ascoltato dai magistrati come persona informata dei fatti. Niente di penalmente rilevante, ma si tratta di una brutta storia che getta ombre sul ruolo tenuto dalla Chiesa locale nella storia industriale di Taranto!

Nei mesi e negli anni successivi i governi nazionali emisero i cosiddetti decreti “salva ILVA” che procurarono ai commissari a cui era stata affidata la gestione dell’industria prima e agli aggiudicatari della gara pubblica di vendita poi (la cordata guidata da Arcelor Mittal con la presenza di Marcegaglia), una immunità penale per reati dovuti agli sforamenti dei limiti di legge per l’inquinamento atmosferico, tanto si era consapevoli dell’impossibilità per quell’impianto di rispettarli. Da alcuni anni, ancora oggi in presenza di venti da Nord che portano le polveri in città, le autorità hanno istituito i “wind day”, giorni in cui il siderurgico deve sospendere alcune attività ed i cittadini devono barricarsi in casa.

È cronaca di questi giorni la notizia che la nuova proprietà ha annunciato di voler recedere dal contratto di acquisto per l’impossibilità di rispettare le prescrizioni imposte dalla magistratura nel luglio scorso per la messa a norma entro il dicembre prossimo dell’altoforno 2, sequestrato dopo la morte dell’operaio Alessandro Morricella investito da una grande fiammata nel 2015.

In una città segnata da una grave disoccupazione e da un importante calo demografico, l’industria siderurgica e la raffineria Eni sono rimaste in 70 anni le principali attività in grado di occupare un numero rilevante ancorché insufficiente di lavoratori, un’industria strategica per l’economia italiana, con gravi problemi di incompatibilità ambientale e sanitaria noti da decenni e affrontati da sette anni a questa parte con la politica dei rinvii e delle immunità penali. La chiusura dello stabilimento rischia di produrre, in assenza di alternative, una gravissima crisi sociale. Dopo aver dissipato le risorse ambientali e umane a Taranto si sta per lasciare il nulla. 

Approfondimenti

Salvatore Romeo

L’acciaio in fumo

Donzelli Editore, 2019

Francesca Mataloni e al.

Studio di coorte sulla mortalità e morbosità nell’area di Taranto

Epidemiol Prev 2012;

36 (5): 237-252  

Maurizio Portaluri è medico ospedaliero impegnato con le associazioni di tutela del diritto alla salute e all’ambiente salubre, del gruppo “Manifesto 4 Ottobre” di Brindisi

* Foto [ritagliata] del 2007 di mafe de baggis tratta da flickr, immagine originale e licenza

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