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DENTRO LE MURA/1 Questo virus è un'altra cosa. Ricordi della guerra

DENTRO LE MURA/1 Questo virus è un'altra cosa. Ricordi della guerra

È qui che siamo. Tutti dentro le mura, prigionieri nelle nostre case per il più alto bene comune, la vita: la dobbiamo proteggere da noi stessi, tutti possibili vettori di un virus che troppo spesso non perdona chi non “sa” resistergli. Costretti i nostri corpi a muoversi lungo perimetri brevi e immodificabili, sono libere le nostre menti di spaziare e sondare profondità che raramente frequentiamo, per mancanza di tempo, di silenzi, di piccole solitudini. Voli di cui ci giungono tracciati sotto forma di testi, riflessioni, lettere, e ai quali Adista apre qui un luogo virtuale perché vi facciano nido, fecondino altre menti, portino pensieri, empatie, confidenze. Il nido non ha porte. Depositate qui i vostri pensieri, li metteremo in rete. Mandate una mail a info@adista.it con oggetto "Dentro le mura". 

 

Antonio Thellung

In questi tempi drammatici, caratterizzati da una preoccupante epidemia in espansione senza neppure che s'intravveda, per il momento, la fine del tunnel, si sente ripetere frequentemente: siamo in guerra, siamo in guerra. Ma è proprio così?

È normale che, nei momenti difficili, il pensiero vada spontaneamente alla vita trascorsa, e tanto più alla mia età ormai prossima ai novanta. Così, questo paragone con la guerra, mi ha proiettato negli anni '40 del secolo scorso, ai tempi del secondo conflitto mondiale. È cominciato che avevo 9 anni e terminato quando ne avevo 14. Un'età particolare, che sancisce una trasformazione radicale della propria vita, e quindi un periodo nel quale s'imprimono particolarmente ricordi indelebili.

E tali sono le immagini che mi tornano alla mente, dalla dichiarazione di guerra (10 giugno 1940) che ricordo di aver ascoltato per radio assieme ai miei genitori (la mamma si era messa a piangere), e poi la retorica di regime che ci veniva martellata nelle scuole, per non dire dei raduni che ci indottrinavano (allora ero Figlio delle Lupa, la sezione più giovanile dei Balilla). Poi però, nei successivi otto mesi, per noi civili non è praticamente cambiato nulla.

A quei tempi vivevo a Genova, città che ha avuto il privilegio di sperimentare per prima le bombe in Italia. Ricordo bene il bombardamento navale del 9 febbraio 1941: chiusi nel rifugio, che era poi la cantina di casa, per cinque ore abbiamo ascoltato i tremendi scoppi vicini e lontani: qualcosa che nessuno di noi aveva mai immaginato. Alcune esplosioni facevano tremare in modo impressionante tutta la casa, e più volte ci siamo domandati se fosse stata colpita proprio la nostra. Poi, al cessato allarme, ricordo la confusione per strada, tra la gente che si spostava da una casa colpita all'altra. Con sgomento ma anche con curiosità. La paura era ancora qualcosa d'irreale, e tutto sembrava l'effetto di una fiction.

E infatti, poi, per molto tempo più nulla di drammatico, mentre la guerra si limitava per noi alle notizie radio-giornalistiche. Fino al 22 ottobre 1942 quando, sempre a Genova, c'è stato il primo grande bombardamento a tappeto. Per tutta la notte, a ondate successive, le fortezze volanti hanno scaricato grappoli di bombe in quantità fino a allora impensate: chiusi nella nostra cantina/rifugio ricordo il tremare dei muri che alimentava la paura. E cessato l'allarme, poco prima dell'alba, ricordo bene l'impressione suscitata dal numero incredibile degli incendi sparsi per tutta la città, oltre alle case ridotte a cumuli di macerie.

Dato che era stata colpita anche la nostra scuola, fortunatamente siamo sfollati subito a Ovada, una cittadina del basso Piemonte dove c'era la casa natale di mia mamma. E lì noi ragazzi abbiamo conquistato una libertà che nella città non potevamo neppure sognare.

Certo, con il passare degli anni il clima si era fatto via via più pesante, soprattutto dopo l'occupazione tedesca. Anche a Ovada ci sono stati alcuni bombardamenti, ma assai meno preoccupanti perché si trattava per lo più di pochi aerei isolati. Ricordo in particolare una volta che mi trovavo per strada nei pressi della stazione ferroviaria insieme a una fila di persone appena scese dal treno, quando è arrivato un aereo che ha cominciato a mitragliare. E noi tutti sdraiati per terra, come si può vedere in certi film. Una volta sono rimasto anche coinvolto in un rastrellamento fatto dai tedeschi che cercavano dei partigiani. Tutti gli uomini della zona radunati in piedi con le mani in altro, controllati da mitra spianati. Io avevo 13 anni e ricordo che mio papà ha gridato: ma lui è un ragazzo! E allora il comandante delle truppe mi ha cacciato via dicendomi di andare a casa. Felice ma anche un po' indispettito per essere stato umiliato.

E poi il ricordo dei giorni della liberazione, dove nelle strade si sparava, e dove ho visto anche uccidere persone a pochi passi da me. Situazioni tragiche di tutti i tipi, quindi, e tuttavia aggiungerei che al di là dei singoli momenti particolarmente drammatici, per lunghi periodi la vita si svolgeva abitualmente in modo non tanto dissimile dalla normale routine quotidiana del tempo di pace. Ricordo che per noi ragazzi, con possibilità di muoverci in piena libertà, era di fatto una festa continua, molto più dell'abituale vita in città, dove la possibilità d'uscire in libertà era per noi assai più condizionata. E aggiungerei che tutti i rapporti sociali tendevano a migliorarsi.

C'erano talune limitazioni alimentari (con tanto di tessere annonarie), ma tutto sommato, con la campagna intorno, qualcosa si riusciva sempre a trovare (alla borsa nera, s'intende). E si facevano anche numerose festicciole in casa dell'uno o dell'altro: insomma, la vita quotidiana non era molto diversa dal solito.

Nella situazione odierna, invece, è vero che non ci sono punte drammatiche come bombardamenti e rastrellamenti, ma per il resto è molto peggio. La libertà d'uscire, le varie forme di socializzazioni, l'incontro con gli altri, a quei tempi non sono mai mancati, anzi, si può dire che proprio il clima drammatico li favorisse, e questo bastava ad alimentare la speranza in un futuro migliore. Oggi, invece, è proprio questa mancanza di libertà che più pesa su quanti hanno la fortuna di non aver contratto il virus. Per non parlare poi della struggente tragedia, per molti, di non poter stare vicini ai propri cari ammalati, costretti così, in molti casi, a chiudere gli occhi nella più sconfortante solitudine.

Quanto alla produzione industriale e di beni primari, nel periodo di guerra era stata addirittura implementata a ritmi sostenuti, almeno finché è stato possibile, mentre oggi è pressoché ferma. E le conseguenze saranno pesantissime per lungo tempo.

Insomma, non ci sono bombe che cascano dall'alto, ma per il resto mi pare si possa senz'altro dire che la vita quotidiana oggi, in questo periodo d'emergenza, sia decisamente peggiore che negli anni di guerra.

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