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Il manifesto4ottobre ricorda Armido Rizzi

Il manifesto4ottobre ricorda Armido Rizzi

Manifesto 4 ottobre, un gruppo di cristiani e laici della nostra Chiesa di Brindisi-Ostuni che da anni riflettono sui temi politici ed ecclesiali contemporanei un ricordo del teologo Armido Rizzi.

In particolare una intervista a Rizzi apparsa sul mensile Jesus - all'interno di un dossier sui trent'anni dal 1968 - nell'ottobre del 1998, condotta da Luciano Scalettari e intitolata "la vera novità fu la politica".

La riproduciamo qui di seguito.

QUi trovate il link all'intervista originale, pubblicata sul mensile dei religiosi paolini

 

“Trent’anni fa il ’68 Sospinti dal “vento” del Concilio, molti cattolici italiani furono protagonisti della grande utopia che sognava di cambiare il volto della società e della Chiesa“ «A chi mi chiede cosa faccio di mestiere rispondo: il traduttore per sopravvivere e il teologo per vivere». Con questa felice espressione Armido Rizzi spiega la sua scelta di dedicare la vita «a servizio della Parola, in un quadro di esistenza comunitaria». Lo ha fatto prima come religioso, nella Compagnia di Gesù, poi da studioso, biblista, filosofo laico, quando ha deciso di lasciare i gesuiti, proprio nei tumultuosi primi anni Settanta. C’entra il Sessantotto con le scelte e lo stile di vita del professor Rizzi? C’entra, eccome. Nel volume Essere teologi oggi (editrice Marietti) scrive: «Il ’68 mi ha aperto gli occhi sulla dimensione politica dell’esistere umano. Immerso come un più maturo compagno di strada (docente e/o animatore) in gruppi della generazione ruggente, non potevo non sentirmi coinvolto dalle loro denunce sociali e nelle loro utopie, pur avanzando nei confronti delle une e delle altre una serie di distinguo e di riserve che non mi permisero mai di sentirmi “organico” a quel movimento». Oggi Armido Rizzi vive e opera con la sua famiglia al Centro Sant’Apollinare, una sua “creatura”: una splendida casa arrampicata sulla più alta collina di Fiesole, un lascito della proprietaria ai Servi di Maria. I padri David Maria Turoldo e Giovanni Vannucci hanno chiesto a Rizzi di “custodirla”, nel lontano 1978. Ne è nato il Centro Sant’Apollinare, luogo di incontri, studi e seminari teologici, ma anche casa di solidarietà e di accoglienza. «Anche questa casa», dice il professor Rizzi, «è legata in qualche modo al ’68, senza il quale forse non saremmo qui. Vivevo a Milano, allora, già in un contesto di famiglia allargata: ospitavo alcuni giovani, e per molti altri quell’appartamento era un punto di riferimento e un luogo di confronto. Quell’idea è continuata qui». Professore, lei ha scritto: «Il ’68 ha avuto per me, cioè per la mia evoluzione complessiva, un’importanza molto maggiore di quella avuta, per esempio, dal Vaticano II». Un’affermazione forte. «Ma è così. Il Vaticano II sviluppava i nodi tematici forti di teologi come Congar, Rahner, Daniélou, De Lubac, che avevo già studiato e seguito appassionatamente. Quindi non fu per me una sorpresa. Mentre il ’68 fu veramente la scoperta della dimensione politica. L’esempio più banale? Fino ad allora ritenevo assolutamente scontato votare Democrazia cristiana. Era in atto un grande, profondo cambiamento che non potevo non cercare di capire. All’inizio degli anni Sessanta i giovani erano caratterizzati dalle tre emme: moglie, macchina, mestiere. Dieci anni dopo c’erano ancora le tre emme, ma erano Marx, Mao, Marcuse. Mi si è aperta, allora, la dimensione della necessità della mediazione politica, della mediazione del potere e del governo, in quanto ambiti diversi dall’etico e dall’etico-sociale. Era sicuramente un movimento di rivoluzione politica, ma vi si indovinava all’interno una più profonda rivoluzione antropologica, proprio perché i giovani abbracciavano la diversa visione dell’essere uomo, che era qualcosa di più profondo della questione dei sistemi di produzione e della lotta di classe. Ed è questa diversa antropologia che è sopravvissuta al ’68, e che ha permesso il passaggio di molti dal rosso al verde». Un cambiamento pieno di luci e ombre. «Un cambiamento nel bene e nel male. Indubbiamente, senza il ’68 non sarebbe arrivata, in Italia, la legge del 1974 sul divorzio, e probabilmente nemmeno quella sull’aborto, dieci anni dopo. Sono sviluppi successivi al ’68, ma collegati, come il femminismo, che non era propriamente sessantottino. Il femminismo è uno sviluppo dell’antropologia del ’68». Lei ha dibattuto molto, ma anche litigato molto con i giovani del ’68. Cosa contestava loro? «Contestavo il fatto che presentavano istanze giuste, ma con soluzioni deficitarie e povertà di strumenti. Insomma, contestavo il ribellismo. Altro aspetto che mi infastidiva erano le aree di furbizia. Sia all’interno del mondo ecclesiale che all’esterno, alcuni sessantottini mi lasciavano perplesso per le pratiche di vita poco coerenti con le idee propugnate. Anche all’università: la faciloneria negli esami, il voto politico e gli esami di gruppo. Infine, il clima di violenza. C’era violenza nel ’68, con buona pace di Mario Capanna che lo nega. Anche se non nella forma in cui è esplosa poi». Si può parlare di ’68 ecclesiale? «Occorre distinguere tra comunità politica ed ecclesiale, divisione più teorica che pratica, dato che le comunità di base ecclesiali avevano una forte connotazione politica. Sul piano ecclesiale, certamente il ’68 ha significato un movimento di riappropriazione della Parola in forme più autonome, critiche, non magisteriali. Le comunità di base hanno portato avanti un lavoro di revisione critica della fede. E si sono caratterizzate per un alto tasso di irrealismo e di utopismo. Ma tra gli elementi positivi metterei senz’altro la maggiore attenzione alla Bibbia, specie per alcuni libri: Esodo, i Profeti, la prassi messianica di Gesù». Il ’68 cattolico ha significato anche maggiore impegno sociale? «Su questo sono più dubbioso. Allora si poneva l’accento sul collettivo, a tutti i livelli. Cristo interpella l’individuo, la sua coscienza etica. Questo aspetto nel ’68 cattolico era cancellato. Si ragionava in termini di movimento collettivo, di trasformazione delle strutture, non di impegno individuale. Per fare la rivoluzione occorre essere un collettivo: è l’antropologia marxiana. È il punto su cui mi sono scontrato più duramente. Marx vede l’uomo come intimamente buono, reso malvagio dalla lotta per la sopravvivenza e, più tardi, nel processo storico, dalla lotta interna dovuta ai mezzi e alle modalità della produzione. L’ultimo passo per Marx è la liberazione della natura umana, che consentirà il riemergere della bontà e della solidarietà originarie. Con la rivoluzione questo passaggio sarà irreversibile. Questo l’ho sempre contestato, per precise incompatibilità con la visione biblica. L’antropologia marxiana, dicevo ai preti operai, non è compatibile con l’essere cristiani. Nella visione biblica ognuno è solo davanti a Dio, nella solitudine della Parola. Poi contestavo il fatto che si parlava molto di poveri, ma non si vedeva la vecchina vicina di casa che aveva bisogno di aiuto. Questo era assistenzialismo, per i sessantottini». Quindi all’impegno collettivo non si collegava quello individuale. «Non c’era presenza nel quotidiano. Per me il tema della trasformazione della vita quotidiana è fondamentale. È un’idea che non mi ha mai abbandonato. Il mio lavoro filosofico è sempre più un cercare di far parlare filosoficamente la Bibbia, per evidenziare che la Bibbia ha una sua dignità teoretica che è stata perduta nella stessa tradizione cristiana. Il luogo originario della trasformazione e della realizzazione del senso secondo la Parola di Dio è la quotidianità. Nel mio libro, Messianismo della vita quotidiana, sostenevo che, oltre alla rivoluzione collettiva e (al suo opposto) al rifugio nel privato, c’è la trasformazione della quotidianità. Dicevo allora, e dico oggi, citando un’affermazione non mia, che “non dobbiamo far parte della Chiesa del dissenso, né della Chiesa del consenso, ma della Chiesa che cerca il senso”». Che cosa ha preso il ’68 dal Concilio Vaticano II? «Il ’68 cattolico ha ripreso e fatto propri alcuni temi: ad esempio il concetto di “popolo di Dio”, una metafora potentemente innovativa che ha cambiato il modo di sentirsi Chiesa; il concetto di secolarizzazione e di dialogo con il mondo. In generale, direi che è venuta allo scoperto l’umanità dell’essere Chiesa e degli uomini di Chiesa. Il Concilio ha favorito la crescita di consapevolezza della dimensione laicale. E ancora, la morale sessuale e coniugale. Pensiamo al travaglio della Humanae vitae, che è proprio del 1968: il dibattito attorno a quei temi, che pure sono culminati nel non possumus di Paolo VI, ha cambiato certamente la mentalità dei cattolici attenti sui temi morali». Quale l’eredità del ’68? «Un influsso sul terrorismo, in qualche misura. Non tanto sui movimenti organizzati, ma su quell’area di simpatizzanti, quelli del “né con lo Stato né con le Br”, per intenderci. Per converso, un esito positivo è dato da coloro che, ex sessantottini, hanno continuato a fare seriamente politica. Poi ci sono eredità meno dirette, di apparentamento o di sviluppo con temi sessantottini. Pensiamo ad esempio agli influssi della Teologia della liberazione, al fiorire di gruppi di cooperazione al Terzo mondo e di volontariato sui temi del sud del mondo, ai gruppi non violenti, all’attenzione ai temi ambientali, a quelli liberazionisti, al femminismo. Sono conseguenza del ’68? No. Ma sono sviluppi successivi, fatti propri da gruppi e movimenti che hanno raccolto anche un’eredità della sensibilità e della cultura di quegli anni».

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