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La “road map” del Vaticano sui migranti climatici

La “road map” del Vaticano sui migranti climatici

Tratto da: Adista Notizie n° 14 del 10/04/2021

40609 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. I nuovi migranti, i profughi di oggi e dei prossimi decenni, saranno sempre di più gli sfollati climatici. Un popolo in fuga da inondazioni, innalzamento dei mari, siccità e uragani che dall’oggi al domani si trova senza le risorse minime per sopravvivere ed è costretto a precipitose traversate di continenti o di aree regionali. È una realtà destinata a cambiare il fenomeno migratorio nel suo insieme, un evento duraturo dentro il quale s’incrociano diversi problemi: dalla necessità di accelerare l’abbandono dei combustibili fossili, alla ricerca e sperimentazione di modelli di sviluppo sostenibile nell’industria come nell’agricoltura, all’urgenza di garantire a tutti il diritto all’accesso all’acqua potabile. La salvaguardia del Creato e il rispetto dei fondamentali diritti umani nei processi migratori si delineano come i due nodi principali di una realtà che non può essere ignorata per comodità, rassegnazione o indifferenza dalla parte più ricca e al sicuro del mondo.

Sono queste alcuni degli spunti contenuti negli Orientamenti Pastorali sugli Sfollati Climatici messi a punto della sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Un documento che intende fornire una road map politica, culturale e spirituale alle comunità cattoliche del Nord e del Sud del mondo, disegnando un approccio pastorale in cui le Chiese locali siano in grado di allearsi con le altre confessioni cristiane, con associazioni e Ong e, allo stesso tempo, di collaborare maggiormente fra di loro, sia sul fronte dell’accoglienza per gli sfollati, sia sul versante della promozione di esperienze comunitarie ed economiche di resilienza di fronte ad eventi climatici estremi.

Regioni costiere e bacini fluviali a rischio

La crisi climatica «ha impatti sproporzionati sui gruppi più vulnerabili, come bambini, donne, persone con disabilità, popolazioni indigene e quanti vivono nelle zone rurali», si legge negli Orientamenti sugli sfollati climatici presentati in Vaticano il 30 marzo scorso. «Alcuni dei cosiddetti “punti caldi” (hot spot) geografici – prosegue il testo – che si prevede saranno maggiormente colpiti dalla crisi climatica sono le regioni fluviali densamente popolate come il delta del Gange (Bangladesh, in particolare), del Mekong e del Nilo, i Paesi della regione del Sahel nell'Africa settentrionale, i piccoli Stati insulari, i Paesi centroamericani particolarmente vulnerabili agli uragani, e le regioni costiere e le aree depresse del mondo».

Proiezioni

I numeri, d’altro canto, parlano chiaro: sia quelli già verificabili, sia le proiezioni sugli anni a venire. Solo nel corso del 2019 – si ricorda infatti nel documento vaticano – si sono registrati più di 33 milioni di nuovi sfollati; «di questi, 8,5 milioni sono fuggiti a causa di conflitti e violenze e 24,9 milioni per disastri naturali. Nella prima metà del 2020, sono stati registrati 14,6 milioni di nuovi spostamenti, di cui 9,8 a causa di disastri ambientali e 4,8 milioni associati a conflitti e violenze. Si stima che dal 2008 al 2018 siano state sfollate, a causa di calamità naturali, oltre 253,7 milioni di persone, un numero da tre a dieci volte superiore – a seconda della regione in questione – rispetto al numero di sfollati provocato da conflitti armati in tutto il mondo». Fare proiezioni attendibili sul prossimo futuro, inoltre, non è semplice: diversi sono infatti gli elementi e le variabili di cui tenere conto; in ogni caso secondo un rapporto della Banca Mondiale del 2018 incentrato sull’Africa subsahariana, l’Asia del sud e l’America Latina, entro il 2050 da 31 a 143 milioni di persone (circa il 2,8% della popolazione mondiale) potranno essere costrette a migrare all'interno dei propri Paesi a causa dei cambiamenti climatici.

Informazioni affidabili sulla crisi climatica

Fra le azioni da mettere in campo, per rispondere a una sfida di tali dimensioni, è importante «diffondere informazioni tempestive, solide e affidabili sulla crisi climatica e sui rischi ad essa connessi riguardanti specifici territori e i rispettivi residenti. Garantire l'uso delle conoscenze tradizionali, indigene e locali, per integrare le conoscenze scientifiche, nella valutazione del rischio di catastrofi e nello sviluppo e nell'attuazione di politiche, strategie e piani specifici per settori, località e contesti specifici e adottare un approccio intersettoriale». In definitiva, «non si tratta di calare dall’alto programmi assistenziali, ma di fare insieme un cammino».

Casa, lavoro e terra

Ancora, se resta una priorità il dovere dell’accoglienza nei confronti di chi è in fuga da un disastro naturale come forma ineludibile di solidarietà e condivisione, al contempo è opportuno «promuovere l'adattamento in situ per evitare lo spostamento, incoraggiando il mantenimento o il recupero dei modi tradizionali o indigeni di relazionarsi con la terra, la natura, e di vivere sul pianeta in modo sostenibile». È importante, cioè, non disperdere i legami fra popolazioni e territori e il connesso bagaglio di tradizioni, conoscenze, culture. Su un piano politico generale, si spiega, compito dei governanti è quello di fare «il possibile affinché tutti possano disporre della base minima materiale e spirituale per rendere effettiva la loro dignità e per formare e mantenere una famiglia, che è la cellula primaria di qualsiasi sviluppo sociale. Questo minimo assoluto, a livello materiale ha tre nomi: casa, lavoro e terra; e un nome a livello spirituale: libertà di spirito, che comprende la libertà religiosa, il diritto all’educazione e tutti gli altri diritti civili».

Beira devastata da tre cicloni

In questo contesto, di particolare significato risulta la testimonianza di mons. Claudio Dalla Zuanna, arcivescovo della città costiera di Beira, in Mozambico, durante la presentazione del documento in Vaticano. Tre cicloni, infatti, hanno colpito in meno di due anni (dal marzo del 2019 al gennaio del 2021) Beira e la sua regione, e gli effetti sono stati catastrofici. «Alcuni studi recenti – ha spiegato l’arcivescovo – hanno mostrato come la temperatura della zona centrale del Paese sia aumentata oltre la media nazionale, anch’essa aumentata, forse un mutamento dovuto al fatto che la deforestazione per l’esportazione di legname è stata maggiore in questa regione (negli ultimi dieci anni è stato esportato più legname dal Mozambico che nei precedenti 500 anni). Questo innalzamento della temperatura potrebbe essere una delle cause del passaggio di queste perturbazioni estreme per la zona centrale del Paese». In ogni caso quello abbattutosi su Beira e il Mozambico nel marzo del 2019, è stato «il più forte ciclone di cui si abbia memoria nell’Africa Australe. Questo ciclone ha danneggiato il 90% degli edifici della città, radendo al suolo i precari quartieri della periferia ma anche scoperchiando la cattedrale che nei suoi 100 anni di vita non aveva mai subito danni così gravi. L’ospedale della città, a cui fanno riferimento i circa 3 milioni di abitanti della regione, molteplici istituzioni pubbliche, scuole, sono stati scoperchiati dai venti che hanno soffiato oltre i 200 km orari». Di fronte a scenari di questo tipo, si legge negli Orientamenti proposti dal Dicastero vaticano, «è diventato urgente e impellente lo sviluppo di politiche affinché nei prossimi anni l’emissione di biossido di carbonio e di altri gas altamente inquinanti si riduca drasticamente, ad esempio, sostituendo i combustibili fossili e sviluppando fonti di energia rinnovabile. Nel mondo c’è un livello esiguo di accesso alle energie pulite e rinnovabili. C’è ancora bisogno di sviluppare tecnologie adeguate di accumulazione». 

* Mozambico, la cattedrale di Beira, sede dell'Arcidiocesi; foto [ritagliata del 2009] di Rosino tratta da wikimedia commons, licenza Creative Commons

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