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Interpretare l'ambiguità

Interpretare l'ambiguità

Tratto da: Adista Documenti n° 35 del 15/10/2022

Qui l'introduzione a questo testo.

È tradizione di Adista pubblicare dei numeri focalizzati su tematiche specifiche attraverso i quali la rivista si è interrogata su temi fondamentali e decisivi per capire la realtà in cui ci troviamo e il futuro alla cui costruzione possiamo provare a contribuire. Ricordo qui, per il 2012, il numero monografico sul cardinale Martini: “Il papa mancato di una Chiesa perduta” e, a seguire, “Concilioanticoncilio 1962-2012”, numero speciale a 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II. Nel 2013 fu pubblicato lo speciale “Punto. E a capo? La Chiesa di Ratzinger e le sfide del futuro”. Nel 2018 quello sull’Isolotto di Firenze: “Comunità dell’Isolotto 1968-2018. Il ‘noi’ che si fa storia” e poi, “Il decennio dell’assalto al cielo: 1968-1977”. In occasione del centenario della fondazione del PCI, nel 2021, il numero sui rapporti tra il PCI e i cattolici: “Pci e cattolici: paralleli e convergenti”.

Fin qui gli antefatti più lontani.

Dal 2021, poi, Adista sta portando avanti un progetto nuovo rispetto ai precedenti numeri monografici. Un progetto disegnato nelle sue linee portanti a casa di Giovanni Avena nel febbraio 2020, appena prima che scattasse il lockdown. E fu quella l’ultima volta in cui ho visto Giovanni da vicino.

Si tratta di speciali teologia che mettono a fuoco il cristianesimo presente e venturo: un grande progetto di riflessione sulla complessa realtà del cristianesimo attuale e con la voglia e le idee per provare ad animare quello dello del futuro.

Nel piano dell’opera, presentato nei suoi intenti fondamentali da Valerio Gigante in apertura del primo speciale, appare chiaramente formulata la domanda sul come sia possibile un cristianesimo nuovo, dal momento che il vecchio non regge alla prova dei tempi.

«Con questa collana di numeri – scrive Valerio Gigante - Adista cercherà di indagare le contraddizioni nel vecchio modo di comunicare Dio, la Chiesa, il messaggio evangelico. E si metterà alla ricerca di nuove forme con cui declinare la fede».

I titoli degli speciali danno abbastanza concretamente l’idea della scansione del progetto. “Otri vecchi vino vecchio. La contemporaneità sfida la teologia” (speciale/1 del 2021); “Liberare la Parola dalle ideologie del potere” (speciale/2 del 2021); “Sentieri per il futuro. Visioni di una Chiesa liberata” (speciale/3 del 2021); “Gesù e il cristianesimo. Derive e approdi”(Speciale/1 del 2022) e “Devozionismo, controllo sociale e fede liberata”, l’ultimo speciale di Adista.

A volte i teologi pensano che le difficoltà della teologia attuale siano solo una questione di linguaggio: una teologia che non è più in grado di comunicare con la contemporaneità e dunque dovrebbe solo trovare i canali giusti per riuscire a parlare con l’esterno, ma anche con l’interno, con quella parte di credenti che in certe posizioni teologiche proprio non riesce a ritrovarsi.

In realtà non è solo questione di linguaggi, di formulazione: troppe cose non reggono più. L’editoriale di Valerio Gigante nel primo speciale pone l’accento, senza mezzi termini, sulla sostanza teologica come consistentemente da rivedere e non solo su un involucro che non incontra più la sensibilità del mondo contemporaneo.

In questi speciali la ricerca del nuovo in teologia non è affidata solo ai teologi di professione, sebbene di teologi ne siano stati interpellati diversi. Mi sembra che si sia scelto di tastare il terreno facendo emergere altre voci e che l’operazione di dare la parola sulla teologia anche ai non teologi costituisca una scelta non naïve, ma che permette a ciò che ribolle in pentola di venire a galla.

In un articolo scritto qualche anno fa con Sergio Tanzarella («Il metodo di Bergoglio: quali conseguenze per la teologia», Rivista di Teologia dell’evangelizzazione 22 [2018) 124) osservavamo che «un modo nuovo di rivolgersi al mondo instaura dialoghi, confronti e relazioni, liberando il ragionare teologico – storto o dritto, grossolano o competente che sia non importa – dall’esclusivismo asfittico del recinto confessionale. Questo restituire libero corso alla teologia sembra già essere una prima cospicua opportunità, per lungo tempo di fatto negata dalla necessità di voler dar prova dell’adesione ossequiosa e ripetitiva a un pensiero unico» e, sempre nello stesso contesto, osservavamo che il motivo woytjliano dell’“aprite le porte a Cristo”, già nel pensiero di Bergoglio appare rovesciato: Cristo non sta fuori e bisogna aprire le porte per farlo entrare, piuttosto Cristo sta dentro e vuole uscire, quindi bisogna permettergli di farlo: lo si deve liberare. “Liberare” Gesù Cristo appare uno dei compiti della teologia» (ib., 129). Si tratta di prendere atto del fatto che non è la Chiesa la cittadella assediata di antica memoria, ma la o le Chiese che di fatto “assediano” Gesù e lo tengono prigioniero e non solo nei tabernacoli cattolici, ma anche negli argini teologici in cui si sforzano di contenerlo.

Nella scelta dei temi, nei nomi e nelle storie di coloro che sono stati invitati a scrivere, nei momenti scelti per la pubblicazione degli speciali è evidente l’impostazione che si rivolge al passato per ritrovare i capi dei fili che fanno la trama del presente: «anche studiare chi furono Giovanni e Gesù – scrive Edmondo Lupieri nello speciale dedicato a Gesù e il cristianesimo – non pare a me una curiosità archeologica fine a se stessa, ma una necessità che mi aiuta a capire il presente». Ritrovare i capi dei fili che formano la trama del presente anche per proiettarci in scenari futuri. L’urgenza di comprendere, che muove dalla storia, si presenta come intensivamente coinvolta nel presente e proiettata verso ciò che sarà o potrebbe essere. Tale impostazione, secondo la quale la storia assume la funzione di una categoria eziologicamente costruttiva e capace di offrire strumenti per decifrare la realtà, mi sembra che caratterizzi, con diversificati accenti ma sempre chiaramente, questi speciali.

Nella grande mole di spunti e temi che emergono dagli speciali io mi fermerò in particolare sull’ultimo numero e su un aspetto che maggiormente incontra le riflessioni che da un po’ di tempo vado accumulando.

Se consideriamo i diversi contributi presenti nell’ultimo fascicolo speciale, ci accorgiamo che questi provano a tratteggiare una lettura del presente nelle varie facce che lo caratterizzano. Stiamo parlando del presente della fede cristiana, della religione cristiana e del potere religioso e politico, dei loro intrecci, delle linee di contiguità e delle differenze. In realtà questa è un’operazione particolarmente complessa, sebbene assolutamente necessaria e che definirei in questi termini: interpretare l’ambiguità. Questo presente, infatti, si presenta come caratterizzato dall’ambiguità. Mi viene da dire che a un passato – mi riferisco al Novecento, almeno fino agli anni ’70 – caratterizzato dall’esistenza di parti abbastanza definite, spesso contrapposte: una erede del passato e costituita dalle posizioni conservatrici, tradizionaliste, intransigenti, l’altra protesa in avanti, orientata alla trasformazione e al cambiamento, costituita da posizioni profondamente riformatrici, talora radicalmente rivoluzionarie, si è sostituito un presente in cui il gioco delle parti si è fatto fluido, contraddittorio, equivoco.

Se nella percezione comune sembrava che il vecchio tendesse a soccombere schiacciato dal nuovo e che la direttrice della storia spingesse in avanti, proprio l’ultima parte del Novecento ha visto un rovesciamento. Non entro neanche nell’insieme dei fattori storici intervenuti; lascio da parte qui un’analisi che potrebbe risultare particolarmente banalizzata e semplificatrice e faccio un solo riferimento al fenomeno della revanche. La revanche de Dieu era il titolo del volume di Gilles Kepel che certamente non passò inosservato quando apparve nel 1991. Kepel individuava un rivendicazionismo religioso trasversale alle confessioni e alle religioni concentrato in uno sforzo di recupero e riappropriazione dell’identità religiosa e a partire da ciò che appariva ai gruppi, movimenti e orientamenti rivendicazionisti come un’evidenza che non si poteva nascondere: il fallimento della modernità e dei suoi ideali, a cominciare da quelli illuministici, tutti individuati come la causa delle tragedie della storia.

Un fallimento che imponeva un ritorno al passato forte delle religioni e che veniva interpretato come la colpa dell’Occidente, il quale appariva come il nuovo Prometeo inchiodato alla sua hybris e costretto a patirla nel suo fianco squarciato e dilaniato. Questo rivendicazionismo non mi sembra affatto rientrato e può essere ancora categoria interpretativa di tanti fenomeni; tuttavia ha assunto forme e subìto mescolanze diverse e oggi mi sembra prevalere un atteggiamento che si appropria di vari aspetti della modernità stessa mescolandola con il suo contrario e restituendoci una figura assai complessa dell’ambiguità. Un’icona di questa ambiguità è il giovane papa (The Young Pope) di Paolo Sorrentino, quel Lenny Belardo con l’ermellino e la sigaretta, che fa i miracoli e beve la coca-cola, chiaroveggente, ambivalente e palestrato.

Allora, certe categorie interpretative, essenzialmente binarie, basate sulle alternative, i poli opposti, il bianco e il nero, la destra e la sinistra e via dicendo, non sono più in grado di interpretare pienamente la realtà. Essa appare, piuttosto, sfuggente, mimetica, fluida e mascherata. Un esempio, fuori dall’ambito del nostro interesse, ma che dà l’idea della babele dei significati in cui siamo immersi, lo possiamo trarre dal fenomeno dei foreign fighters in Ucraina. Militanti di estrema destra combattono con la Russia e per Putin, altri, dello stesso orientamento politico, hanno tratto dalle loro convinzioni nazionaliste l’idea che si dovesse scendere a fianco dell’Ucraina e altrettanto si riscontra sul fronte opposto della sinistra.

Per decifrare questa ambiguità ci viene richiesto un sovrappiù di comprensione, una maggiore fatica nello sceverare e strumenti di analisi più affinati. I precedenti speciali di Adista e questo nello specifico, si rivelano come particolarmente adeguati nello svolgere questo lavoro. Proporrò qui alcuni esempi che illustrano ciò che intendo dire.

Partiamo dal devozionismo. La devozione religiosa è morta? A frequentare certi ambienti si potrebbe dire di sì. Pensiamo ai contesti largamente scristianizzati in cui vivono la maggior parte degli abitanti delle città, ai ragazzi che non conoscono neanche una preghiera a memoria. Se invece ci inoltriamo nei paesi della provincia, soprattutto meridionale, la devozione si respira in mezzo alle vie, le feste patronali sono sentite e raccolgono la popolazione che in qualche modo vi si riconosce.

La liturgia non è più in grado di veicolare significati? Non parla più perché, ad esempio, i simboli liturgici non sono ormai più riconosciuti dalle persone? A frequentare certe messe si risponderebbe certamente di sì. Eppure gli sforzi per restaurare fasti liturgici e i ritorni alle messe tridentine sono una realtà. Semplice coesistenza di vecchio e di nuovo, sacche di resistenza retrograda a fronte di una modernità che ha invece irreversibilmente preso piede? Forse non è così semplice e la realtà è più ibrida di quanto non si pensi.

Osserviamo alcuni casi di questa ibridazione. È dagli anni ’80 che la cantante Madonna è diventata una star anche perché si chiama così. Se pensiamo all’album del 1989, Like a prayer, e al video che l’accompagnò, con tutta l’abbondanza di simboli e oggetti religiosi che vi compare, risulta troppo riduttivo liquidare tutto come una squallida operazione commerciale o una forma di vilipendio alla religione, come allora dissero in molti.

Intanto, alcuni oggetti religiosi si sono trasformati in oggetti di tendenza. Penso ad esempio ai cuori, cuori sacri rivisitati nella forma di monili da appendere al collo, di decorazioni da attaccare alle pareti o da esporre come soprammobili. È sufficiente una facile ricerca su Amazon: cuore sacro-decorazioni per interni -casa e cucina; ma si trovano pure gli orecchini. Ancora, cuori sacri glitterati e fluorescenti anche in forma di charms (6 al prezzo di euro ventisei). Solo operazione commerciale? Penso di no. Personalmente tendo a leggere queste forme secondo la categoria dell’ambiguo che caratterizza questo tempo. E quindi è necessaria un’operazione di disambiguazione.

E proprio in tema di sacri cuori Daniele Menozzi opera una indispensabile operazione di questo genere. Non lo fa a proposito di oggettistica ma della consacrazione dell’Ucraina al Cuore immacolato di Maria. La devozione ai sacri cuori, di Gesù soprattutto, ma anche di Maria è antica di più di quattrocento anni, e ha assunto, direi sul nascere, per l’appropriazione che ne ha fatto la monarchia francese, una coloritura politica. La devozione al sacro Cuore si esprime poi, trionfalmente, nell’‘800, nella edificazione della basilica del Sacro Cuore di Parigi. La consacrazione della Francia al cuore di Gesù è un atto di riparazione contro l’affronto costituito dalla Comune di Parigi. Ed è proprio a partire dai suoi studi su questa devozione, studi storici, si intende, che Menozzi è in grado di leggere il gesto di papa Francesco, che tanto ha fatto discutere. Il testo di Menozzi è una lezione di metodo. Il cuore immacolato di Maria: un cavallo di battaglia del devozionismo a volte più becero, pieno di stereotipi di genere, che antropomorfizza in maniera sessista Dio padre e Gesù figlio, nella misura in cui è il cuore tenero di Maria, la donna, a cui bisogna appellarsi affinché interceda per intenerire i cuori più severi e intransigenti di Gesù e del Padre. Basti pensare alla supplica alla Madonna di Pompei, che è un concentrato di tali rappresentazioni. Un simbolo di cui si appropria la politica fino al presente – pensiamo al populismo madonnaro di Salvini (che bacia il rosario e Francesca Verdini) – viene usato da papa Francesco svincolandolo dal suo milieu politico, ci dice Menozzi. Questo perché il papa tace su Fatima, sull’impiego che di questo simbolo fu fatto in funzione antimoderna. Secondo Menozzi, tuttavia, il papa avrebbe potuto fare un passo in più, un’operazione maggiormente cristallina, restituendo un significato più autentico di questa devozione e cioè ricongiungendola a ciò di cui il Cuore di Maria sarebbe stato l’argine, ossia il baluardo contro cui si sarebbe dovuta arrestare la grande tragedia della Prima guerra mondiale.

Tra le forme che assume questa trasformazione del religioso vi è il pellegrinaggio; antichissima forma della devozione, il viaggio che prima si orientò a Gerusalemme e poi verso i santuari che via via sorgevano nei luoghi della cristianità, incontra da qualche tempo un rinnovato favore che non consiste soltanto nei viaggi a San Giovanni Rotondo, con annessa vendita di pentolame. Si pensi, ad esempio, alla riscoperta delle tante vie francigene (perché non ve ne è una sola come comunemente si crede) e a Santiago di Compostela. Il camminare verso i santuari – e di santuari in questo speciale si parla – è un’esperienza trasversale forse meno ambigua di altre forme ma di sicuro in metamorfosi quanto ai suoi significati antropologici e spirituali, un cambiamento che richiede anch’esso di essere meglio compreso e interpretato.

Popolo, popolare, populista. Ecco un altro territorio di disambiguazione. Evidentemente necessaria sia perché prosperano le commistioni, sia perché si rischia di interpretare semplicisticamente ogni riferimento al popolo e al “popolare”. Sul termine popolo l’articolo di Marcelo Barros offre un contributo di chiarificazione. Anche in questo caso, tracciare la storia degli usi del concetto e della parola popolo, almeno a partire dal Vaticano II, dalla Lumen gentium e ripercorrendo le valenze che ha assunto il termine nella elaborazione culturale latino-americana, rende esplicito come non sia corretto pensare che esista da una parte un’idea di classe, portata avanti dalla teologia della liberazione, e dall’altra un’idea di popolo che si trova nella cosiddetta teologia del popolo.

Un altro livello al quale l’ambiguità si manifesta è quello delle parole. Edmondo Lupieri, ad esempio, prende in esame l’uso di parole di provenienza biblica nel linguaggio mediaticopolitico americano nel quale termini di ascendenza biblica vengono usati come veicoli di propaganda. Si trovano, ad esempio, in rete usi di espressioni dell’Apocalisse come la bestia e il marchio della bestia, piegati alle letture no vax per cui il marchio sarebbe il vaccino o il certificato di vaccinazione.

Ho sviluppato questi esempi sotto forma di cenni che la lettura dei testi può certamente aiutare ad approfondire.

In conclusione, questi articoli e questi speciali non hanno la pretesa di spiegare tutto e di rischiarare – come scrive Lupieri – «il sol dell’avvenire», anche perché, io credo, questo sole ancora non è sorto. Si impegnano, piuttosto, a mettere a fuoco singole porzioni di realtà. Sono pile accese (e i nostri smartphone ci hanno abituato all’uso) che fanno luce su zone specifiche di una hegeliana notte in cui tutte le vacche sembrano – ma senza esserlo – nere.

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