
Cosa ci insegna la lotta dei lavoratori di Mondo Convenienza
Il 23 settembre si è svolto a Roma, nel quartiere di Torre Angela (periferia est), un incontro promosso dal gruppo ecclesiale "La Tenda", che che aveva per titolo: “Quali priorità per la nostra Chiesa e quali priorità per la nostra società?”. È stato un incontro molto partecipato, di cui diamo conto attraverso la pubblicazione di una della relazioni, svolta da Michele Del Campo, sociologo e Direttore Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro Diocesi di Prato. Questo intervento è comparso nel numero 72 (seconda serie) delle "Lettere" inviate periodicamente dal gruppo "La Tenda" attraverso l'email.
A Prato e dintorni, ma possiamo dire in Toscana e in Italia, il fenomeno della precarietà del lavoro, il non rispetto dei diritti contrattuali, il non rispetto della giusta paga, del giusto riposo, della dignità umana va diffondendosi silenziosamente; si presenta come un fiume carsico che ogni tanto riaffiora venendo alla luce della cronaca quando le condizioni di lavoro diventano insopportabili, in particolare per coloro che pur di diventare cittadini attraverso il lavoro si sottopongono a condizioni spesso non degne di una società civile e fraterna.
Dopo i casi denunciati di mancato rispetto contrattuale e di condizioni di lavoro non proprio legali che si sono manifestati nella Tintoria Fada, nella Digi Accessori (Ruentex, Gruccia Creation), nel Panificio Toscano …, oggi si aggiunge anche Mondo Convenienza. Qui, dai lavoratori degli appalti dei servizi affidati dalla ditta madre (madrigna), Mondo Convenienza, vengono denunciati condizioni di lavoro proibitive: orari lunghissimi, turni di lavoro di 12 ore per 6 giorni alla settimana, straordinari non pagati, paghe non regolari.
Il lavoro a Prato è stato sempre un elemento integratore della società e, soprattutto, di coloro che venivano da fuori. (dagli anni ‘50 ad oggi circa il 70% della popolazione presente). Chi arrivava a Prato trovava subito lavoro e piano piano si integrava e progrediva socialmente. Il dialogo sociale e lo scambio di esperienze nel profondo rispetto del lavoro come valore fondante della comunità ha sempre caratterizzato la società pratese.
Come è possibile che oggi tutto questo non è più possibile? È saltata l’etica del lavoro e ha preso piede l’etica del profitto individuale che diventa appropriazione del lavoro altrui e alcune volte anche della persona complessivamente. È saltato il dialogo comunitario, quel patto non scritto che a chi lavora va garantito il giusto riconoscimento. È saltato quel dialogo comunitario che ha permesso a utti di progredire socialmente, senza dimenticarsi le origini: è saltata la memoria del passato che innova il presente. Quello che preoccupa di più è che questa situazione prende anche imprenditori che nel loro passato hanno vissuto il loro essere lavoratori dipendenti, dove anche su loro gravavano situazioni simili a quelle che oggi loro stessi determinano, senza nessuna memoria delle loro sofferenze da cui si son dovuti liberare e per cui richiedevano una legislazione più giusta. La dimenticanza è giustificata con lo slogan “ma io mi sono fatto da solo”, dimenticando che è stato il contesto comunitario a permettere il lora progresso e dichiarando così che la solitudine produce dei mostri, produce chiusure verso l’altro. Hanno dimenticato la loro origine, la loro radice, la loro ricerca di un lavoro dignitoso che permette di poter rientrare a casa, la sera, a testa alta e raccontare la propria giornata lavorativa ai propri familiari.
Ma c’è qualcos’altro, non è solo una semplice volontà di una persona. È un problema che, oggi, rischia di diventare strutturale. Il sistema capitalistico e del libero mercato sta creando le condizioni perché tutto si precarizzi, tutto diventa incertezza, insicurezza in modo tale che esso possa continuare a vivere producendo grandi disuguaglianze, base fondamentale per la propria sopravvivenza.
È strano, dopo tutto quello che abbiamo imparato dalla storia passata per addomesticare il capitalismo e renderlo più mite e meno aggressivo, che nel 2023 la precarietà è diventata un fenomeno inquietante e complesso nello stesso tempo. La frantumazione del mercato del lavoro è ampia, si dipana dal lavoro nero spesso nelle mani della malavita, al lavoro a tempo determinato che coinvolge soprattutto i giovani, passando attraverso le partite IVA fasulle, le collaborazioni continuate all’infinito, i part time forzati specie nei confronti delle donne, gli apprendistati reiterati a piene mani, i tirocini gratuiti, ridotti a volontariato, il mancato rispetto del contratto anche nelle forme di lavoro più tutelate, quale quello a tempo indeterminato. Ai giovani non so se stiamo negando il futuro, di certo stiamo dicendo loro che la vita non può che essere precaria, senza dignità. Ci ha preoccupato molto ascoltare in una serie di incontri di orientamento fatti con i giovani 17-20 anni (circa 200) che alla domanda “Come vedi la tua vita tra dieci anni” affermavano: “Io mi vedo sotto un ponte, o comunque non ho proprio idea di cosa potrà essere il mio futuro”.
La precarietà, oggi, tocca anche chi già lavora perché cresce l’insoddisfazione nel lavoro e le aziende, per competere (o non in grado di competere) scaricano le loro disfunzioni e la loro improduttività solo e soltanto sul costo del lavoro e sulle condizioni di lavoro rendendo i lavoratori più fragili e ricattabili per farli sottostare a regole non negoziate. Il lavoratore non viene considerato una risorsa per l’azienda, ma un vincolo alle proprie strategie. Inoltre, oggi, man mano che ci si inoltrerà nella transizione ecologica e digitale e mentre l’Intelligenza Artificiale comincerà ad insidiare e stravolgere l’organizzazione del lavoro, si scoprirà che l’obsolescenza di vecchi lavori verrà accelerata. Ci saranno sicuramente nuove professionalità che emergeranno, ma non ci si preoccuperà di chi diventa “obsoleto” per il sistema produttivo, considerandolo solo una persona da ricattare o da emarginare.
Per ciascuna delle questioni accennate, c’è bisogno di individuare soluzioni operative e risorse adeguate. Sbaglia chi ritiene che si possa disporre con facilità di una cassetta degli attrezzi che vada oltre gli slogan da manifestazione. Se si vuole fare sul serio, bisogna mettere intorno al tavolo tutti i protagonisti istituzionali, economici, sindacali, che con l’aiuto dei centri di ricerca universitari, privati, associazioni di terzo settore… potranno delineare indirizzi e proposte praticabili, adeguate alla ricomposizione del mondo del lavoro. È questo l’obiettivo che deve fare da faro alle forze che tutelano il lavoro e a chi ha a cuore il lavoro e la sua etica.
Il male, la nostra voglia di accumulare pensando solo a noi stessi giustificati dalla frase “altrimenti chiudo battenti”, sembra essere l’unica prospettiva presente nella nostra vita, distruggendo il bene che precedentemente si era costruito dando dignità sociale a chi non ne aveva o ne aveva poco. È come se il male si fosse nutrito del bene precedentemente raggiunto. È rinato in forme nuove. Noi, però vediamo un invito a trovare altre forme di bene per fermare il male che si radica nella società odierna. Non bisogna arrendersi dicendo: “si è fatto sempre così”. In questo modo si avalla la struttura stessa del male ostacolando la crescita del bene che va oltre il male stesso. Noi non siamo chiamati a “fare come si è sempre fatto”; dobbiamo pensare a cose nuove che possono sorgere e che possiamo contribuire a far sorgere.
Come Pastorale sociale e del lavoro della diocesi pratese, abbiamo pensato di dare il nostro contributo richiamando i protagonisti della regolazione del lavoro e di coloro che oggi approfittano della debolezza del lavoratore su alcune linee guida che ci vengono dal Libro Sacro (con la scelta di alcuni versetti che si adattano alla problematica che stiamo affrontando, senza nessun intento catechetico o prescrittivo e tanto meno di applicazione letteralistica, visto che la Bibbia – interpretata alla lettera – spesso può portate a conclusioni opposte rispetto allo spirito del testo) e che possono orientare l’azione di ogni attore
1 Ispirare la nostra azione ad un’etica del lavoro. In questi tempi di difficoltà e di disperazione, ci sono persone che, pur di non perdere il posto e sperando in tempi migliori, accettano di lavorare senza stipendio, in modo precario, in condizioni non umane. Ispirare la nostra azione a un'etica del lavoro significa rispettare chi lo compie a partire dal giusto compenso, come ci ricorda la Bibbia.
Guai a chi costruisce la casa senza giustizia e il piano di sopra senza equità, che fa lavorare il suo prossimo per nulla, senza dargli la paga (Geremia 22:13). Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. (Giacomo 5, 4).
2 Il lavoro sia giusto ed equo. È ancora la Bibbia che ci ricorda: Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo; il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino dopo. (Levitico 19:13). Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nel tuo paese, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e vi volge il desiderio (Deuteronomio 24, 14-15a)
Oltre a essere giusto ed equo, il compenso del lavoro deve essere tempestivo per non creare differenze tra lavori e lavoratori. Bisogna permettere a tutti di fare la spesa, di non preoccuparsi di arrivare a domani o a fine mese. Non si può assistere inermi a pagamenti decurtati, a pagamenti formalmente contrattuali e in realtà dimezzati da caporali, da imprenditori incapaci che fanno profitti ingiusti sull’illegalità. Non pagare per mesi un operaio significa, di fatto, pagarlo molto meno del pattuito. Il discorso, però, vale anche per il lavoro dei professionisti, degli artigiani, delle aziende in genere che lavorano per conto terzi soprattutto quando il committente è un ente pubblico. E, a maggior ragione, vale per il pagamento degli ammortizzatori sociali da parte di soggetti pubblici: è inaccettabile che chi è in cassa integrazione (quindi già in una situazione di debolezza e incertezza) debba attendere molti mesi prima di vedersi erogare quanto gli spetta.
Prendere tempo sul pagamento del salario comporta due cose, ambedue inique: la privazione della libertà di sussistenza all’operaio e l’arricchimento indebito dei datori di lavoro disonesti, conseguito per mezzo di quel denaro conservato più a lungo, magari in banca o senza pagare le imposte.
3 L’impresa non può essere un luogo di dannazione. L’impresa sia un luogo di ristoro, dove
attraverso il lavoro si costruisce un ambiente comunitario, dove ci si prende cura l’uno dell’altro e si partecipa alla realizzazione complessiva della comunità aziendale e territoriale. Se si sta bene in un luogo di lavoro si sta bene anche all’esterno. Se c’è rispetto del contratto c’è maggiore responsabilità sociale di tutti coloro che lavorano a vario titolo.
4 Il sindacato non può stare a guardare. Il sindacato, soprattutto quello confederale, faccia i conti con la società liquida cercando di produrre più certezze per i lavoratori, per i giovani, per le donne, per le famiglie. Continui a svolgere un ruolo di “corpo intermedio” tra società ed istituzioni, interpretando con ampiezza di vedute e di comportamenti i mutamenti qualitativi e quantitativi della realtà del lavoro, con l’obiettivo di ricomporre ciò che tecnologia, organizzazione e globalizzazione e scelte datoriali tendono a scomporre. Non badi a rafforzare solo il suo consenso per crescere in autorevolezza. Promuova la partecipazione dei lavoratori alle scelte sindacali, alimentate da valori e obiettivi unificanti, che non si possono esprimere una tantum, con fiammate ribellistiche attorno a parole d’ordine spesso populistiche, ma con un costante coinvolgimento delle persone, guidandole su un saldo sentiero democratico.
Cosa possiamo fare, come credenti, per aiutare il rispetto della dignità del lavoro?
Innanzitutto ascoltare la voce di chi sta subendo ingiustizie per attivare processi di riparazione all’ingiustizia prodotta; non girare la testa dall’altra parte o trovare delle giustificazioni come quella che dice “non è compito nostro”. Informarci, ascoltare le ragioni delle parti e favorire processi di incontro tra gli attori del lavoro (sindacati, imprenditori, lavoratori e istituzioni) è questo un cammino da proporre a tutti noi. Siamo chiamati ad aiutare i processi di ripristino della giustizia attraverso azioni individuali e collettive che costringano a cercare soluzioni che possano aiutare tutti.
Inoltre, possiamo agire direttamente come consumatori e diventare consum-attori. Come consumatori, possiamo esercitare il nostro spirito critico, di discernimento e comportarci come un soggetto che, anche se esterno alle relazioni di lavoro, entra in gioca con la propria capacità di orientare i propri consumi verso aziende che rispettano i diritti umani e la dignità del lavoro. È quello che il prof. Becchetti chiama “votare col portafoglio” e che un tempo avremmo chiamato boicottaggio delle merci. Ci ricorda Francuccio Gesualdi che “Quando acquistiamo un determinato prodotto stiamo approvando tutto quello che è stato fatto per produrlo. Se capiamo questo, ci rendiamo conto del potere che abbiamo in mano”.
È un impegno che ci costerà fatica, ma che aiuterà coloro che soffrono le discriminazioni e l’ingiustizia sul lavoro e aiuterà a capire che un mondo più giusto è possibile. E alla fine quando nel nostro cammino verso la giustizia ci sentiremo stanchi sappiamo di poter contare su un consolatore che ci dice: Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. (Matteo 11, 28-29)
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