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Il processo per Sloane Avenue verso la sentenza. Ma si rischia il nulla di fatto

Il processo per Sloane Avenue verso la sentenza. Ma si rischia il nulla di fatto

Tratto da: Adista Notizie n° 39 del 18/11/2023

41645 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Il processo in corso in Vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato e sulla compravendita del palazzo di Londra finirà entro il prossimo 16 dicembre. Lo ha fatto sapere, all'inizio della 75/a udienza, lo scorso 8 novembre, il presidente del tribunale Giuseppe Pignatone, spiegando che il promotore di giustizia (il pubblico ministero vaticano) Alessandro Diddi ha comunicato che, una volta concluso il 6 dicembre il ciclo di udienze dedicato alle difese, intende fare una replica. A essa poi potranno seguire le ulteriori repliche e controrepliche delle parti. Pignatone ha quindi fissato per la mattina di lunedì 11 dicembre la replica del promotore di giustizia, per il pomeriggio quelle delle parti civili, e per martedì 12 dicembre le controrepliche dei difensori. «Quindi entro la settimana, che inizia l'11 e finisce il 16 dicembre, dovremo avere la sentenza», ha aggiunto.

Caos e improvvisazione

Quello che doveva essere lo storico processo vaticano per le presunte malversazioni ai danni della Santa Sede in seguito alla compravendita con fondi della Segreteria di Stato di un immobile di lusso situato al civico 60 di Sloane avenue, a Londra, si sta insomma avviando alla conclusione. Ma col passare del tempo e delle arringhe difensive, crescono i dubbi sulla fondatezza delle accuse, almeno in parte. Sì, perché quello che sta emergendo dal processo è soprattutto un modo di procedere caotico e dominato dall’improvvisazione da parte di funzionari della Segreteria di Stato e di collaboratori finanziari del Vaticano che potrebbe certo aver prodotto vantaggi per qualcuno dei protagonisti della vicenda, ma che sembra in primo luogo aver prodotto un’operazione gestita con scarsa professionalità, con una buona dose di presunzione da parte di alcuni, negando soprattutto ogni principio di collaborazione fra le stesse istituzioni vaticane in un coacervo di piccole e grandi faide interne.

Perché Perlasca non è imputato?

Fra l’altro non si capisce come sia stato possibile escludere dal novero dei ben 10 imputati, quel mons. Alberto Perlasca, ex capo dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, che ha fatto e disfatto accordi, firmato contratti per conto del Vaticano senza avere potere di firma, occultato informazioni al suo superiore, il sostituto per gli affari generali, mons. Edgar Peña Parra. Perlasca è diventato una sorta di supertestimone dell’accusa, senza in realtà aggiungere molto a quanto è emerso da diverse fonti e testimonianze, una delle quali almeno particolarmente autorevole: quella dello stesso Peña Parra che ha risposto alle domande di giudici e avvocati nel marzo scorso dopo aver consegnato nel 2020 un dettagliato memoriale in tribunale, per contribuire a fare chiarezza sull’intera vicenda. All’inizio di ottobre, poi, con le arringhe difensive degli avvocati di due degli imputati – l’ex presidente dell’Aif (l’Autorità d’informazione finanziaria, l’organismo il cui compito è quello di vigilare sui rischi di riciclaggio del denaro sporco in Vaticano; oggi ha preso il nome di Asif, è l’equivalente della Uif della Banca d’Italia), René Brülhart, e il direttore del medesimo organismo, Tommaso Di Ruzza – è avvenuto quello che anche il sito d’informazione vaticano, Vatican News, ha definito un «cambio di prospettiva nella narrazione del processo sugli investimenti finanziari della Segreteria di Stato a Londra».

L’accusa

L’Ufficio del promotore di giustizia, ha accusato 10 persone, tra cui il card. Giovanni Angelo Becciu, di una serie di presunti crimini finanziari derivanti dall'investimento di 350 milioni di euro della Segreteria di Stato nella famigerata proprietà londinese. I pubblici ministeri sostengono che monsignori e intermediari vaticani abbiano derubato la Santa Sede di decine di milioni di euro in compensi e commissioni, e poi abbiano estorto alla Santa Sede 15 milioni di euro per cedere il controllo dell'edificio. Gran parte del caso di Londra si basa sul passaggio della proprietà da un broker londinese a un altro alla fine del 2018. I pubblici ministeri sostengono che il secondo broker, Gianluigi Torzi, abbia ingannato il Vaticano manovrando per assicurarsi il pieno controllo dell'edificio che ha ceduto solo quando il Vaticano gli ha pagato 15 milioni di euro. Per i pubblici ministeri vaticani ciò equivaleva a un’estorsione. Per la difesa – e per un giudice britannico che ha respinto le richieste del Vaticano di sequestrare i beni di Torzi – si è trattato di un'uscita negoziata da un contratto giuridicamente vincolante, dunque un contratto valido e sottoscritto anche dal Vaticano. Nello specifico, i due ex dirigenti dell'Autorità finanziaria vaticana, René Brülhart e Tommaso Di Ruzza, sono accusati di abuso d'ufficio per non aver bloccato il pagamento a Torzi e per non aver denunciato il tutto alla procura vaticana. I loro avvocati, però, hanno entrambi citato il fatto che lo stesso Francesco aveva chiesto loro di aiutare la Segreteria di Stato a strappare il controllo della proprietà a Torzi una volta che il Vaticano si era reso conto di non essere effettivamente il proprietario dell'edificio. In tal senso hanno citato la testimonianza scritta di mons. Edgar Peña Parra, il quale ha detto che gli avvocati vaticani in Gran Bretagna e Lussemburgo avevano sconsigliato di citare in giudizio Torzi poiché il loro caso era troppo debole: il Vaticano aveva firmato contratti che gli davano chiaramente il controllo dell'edificio. Peña Parra ha affermato che sulla base di tale consiglio, il Vaticano ha scelto di negoziare un pagamento con Torzi perché tale opzione era considerata la migliore in termini di costi, rischi e risultati.

Il ruolo dello Ior

C’è, infine, il tema del prestito non concesso dallo Ior, la banca vaticana, alla Segreteria di Stato per saldare il debito derivante dal mutuo che incombeva sul Vaticano per l’acquisto del palazzo londinese così da liberare la Santa Sede dell’intero problema. Lo Ior, non solo non concesse il prestito alla Segreteria di Stato, in definitiva quindi allo Stato vaticano, ma denunciò il tutto al promotore di giustizia. Una scelta che, secondo gli avvocati difensori di Di Ruzza, fece perdere al Vaticano altri 17 milioni di euro per le successive rate del mutuo; al contrario l’estinzione del debito non solo avrebbe chiuso l’incresciosa vicenda, ma avrebbe allo stesso tempo consentito di mettere sul mercato l’edificio di Sloane Avenue permettendo alla Santa Sede di guadagnare delle risorse da tutta l’operazione. La questione del mutuo molto oneroso che gravava sul palazzo, era stata affrontata anche dall’arcivescovo Peña Parra, nel corso della sua testimonianza del 16 marzo scorso, quando spiegò come appunto il mutuo in questione «ci costava un milione di euro al mese, e questo non era possibile: era un crimine usare così i soldi della Santa Sede. E per di più pagando interessi fuori dal Vaticano». Per questo in marzo si chiese il prestito allo Ior, prima promesso, confermato nei mesi successivi – con l'avallo anche dell’Aif – e poi alla fine negato, per il timore, diceva la banca vaticana, di incorrere nel riciclaggio. Il finanziamento fu comunque ottenuto ricorrendo all'Apsa. Quindi spiegò un aspetto interessante della vicenda: «Ero molto sorpreso dall'atteggiamento dello Ior. Farci aspettare tutti quei mesi facendoci spendere così tanti soldi e poi negarci il mutuo! Avevo il sospetto che l'atteggiamento dello Ior fosse dovuto a qualche contatto col gruppo avverso a noi, cioè con Gianluigi Torzi». Per questo «chiesi alla Gendarmeria – ha continuato Peña Parra – di farci un rapporto sullo Ior: non sulla vita delle persone, per esempio del direttore generale, di cui non mi interessa. Ma vedere se lo Ior fosse stato in qualche modo coinvolto in questa faccenda, visto il suo atteggiamento anomalo».

La difesa ha anche sollevato questioni fondamentali relative all’applicazione dello stato di diritto nella città-stato vaticana, dal momento che Francesco ha cambiato la legge quattro volte con altrettanti provvedimenti durante le indagini a vantaggio dei pubblici ministeri, e poi l’ha cambiata di nuovo per consentire a un cardinale di essere processato. 

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